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Ema

Il capolavoro mancato di Larraín

Ema e Gastón, prima ballerina e coreografo, sono le anime di una compagnia di danza contemporanea. Vivono a Valparaíso, città portuale del Cile. Sposati, stanno definendo la separazione dopo un’esperienza fallimentare di adozione, seguita all’infecondità dell’uomo. Dopo aver appiccato un rogo che è quasi costato la vita alla sorella di Ema, il piccolo Polo è stato rispedito ai servizi sociali che lo hanno subito assegnato a un’altra famiglia. Il ripensamento di Ema, che sente di amare il figlio rifiutato, scatena una reazione nella giovane donna che coinvolge i nuovi genitori del bambino: la madre, un’avvocatessa divorzista, e il padre, un vigile del fuoco che interviene per spegnere un incendio causato proprio da Ema. La ballerina diventa l’amante di entrambi e, poco a poco, si insinua nelle loro vite, mentre Gastón tenta di salvare il matrimonio e la compagnia di danza, che nel frattempo lo ha messo in discussione.

Con Jackie, Ema e Spencer (quest’ultimo, in lavorazione, vede Kristen Stewart nei panni di Lady D), Pablo Larraín vira il suo cinema verso predominanti femminili e sceglie di abbandonare, per il momento, il racconto delle dolorose trasformazioni sociali e politiche del suo Cile, dal golpe in avanti, attraverso personaggi maschili discutibili che, da Fuga, film d’esordio, a Neruda, hanno incarnato (poeta compreso) le contraddizioni di un paese che è passato dal sogno socialista all’incubo della dittatura al disorientamento del consumismo, ponendo seri interrogativi sull’identità del singolo e della collettività. Con lo spettro della schizofrenia a insinuarsi nel narrato per minarne le convenzioni, il regista e produttore (coadiuvato dal fratello Juan de Dios) ha scovato nel tessuto del reale incrinature perturbanti da dove sono emersi i Ricardo Coppa (Fuga), i Raùl Peralta (Tony Manero), i Mario Corneo (Post Mortem), i sacerdoti pedofili confinati e perduti (El club), i Peluchonneau (Neruda), lo stesso Generale Pinochet (NO), idioti affetti a loro modo da ossessioni, turbe, malattie psichiche, esclusi da ogni ipotesi redentiva a eccezione forse dell’investigatore che segue Neruda fino alla fine del mondo.

Ema si pone però come entità estranea anche nel confronto con Jackie e Diana, perché non è personaggio pubblico, non sfida nessun immaginario o narrazione fabbricata dai rotocalchi o dai ranghi di appartenenza (i Kennedy, i reali britannici). Ema è lo spirito disordinato e disorientante del presente, un corpo senza legge che nelle vesti confortanti di donne di Stato non ci si è mai trovata. Incendiaria, prima e dopo la piromania del figlio Polo, gioca letteralmente col fuoco nel perimetro di strutture infiammabili come la coppia, la famiglia, la maternità (intesa come luogo concettuale di responsabilità), forzandone la tenuta, ridiscutendone il senso, i rapporti di forza. Nei primi raffinati venti minuti di film c’è molto di questo spirito iconoclasta nell’interpretazione del ruolo femminile nell’alveo delle convezioni, così che Ema appare già sul piede di guerra. La prima immagine è il rogo di un semaforo dato alle fiamme – lo capiremo solo dopo – dalla giovane donna armata dall’aspetto vagamente punk: bruciare i semafori è opzionare il caos, far saltare la razionalità degli incroci stradali, confondere la precisione delle geometrie. In un movimento pendolare tra l’incanto di una performance in un open space e la crudezza della vita tra Ema e Gastón, che si rimpallano responsabilità per il fallimento con il piccolo Polo, Larraín inizia a incastrare tempi e luoghi che non cercano linearità narrativa, nemmeno nella stessa scena. Il meccanismo non è nuovo, se ripensiamo a certi passaggi in Neruda, ma senza dubbio in Ema c’è una tensione diversa, che sposta gli eventi in una dimensione ancora più onirica.

Sullo sfondo di una stella che cambia colore fino al rosso intenso, con il corpo di ballo che sembra muoversi per effetto dei campi elettromagnetici della Pulsar, Ema si fa padrona dell’energia sotto lo sguardo incantato del marito, lo stesso sguardo che in montaggio parallelo l’accusa di “infanticidio”: notevole prova di messa in scena che mette di fronte lui e lei in un campo-controcampo che li incornicia lontani. In un flusso a-narrativo di immagini che si compenetrano e si respingono al tempo stesso, il regista ci ha già suggerito l’essenziale, anche per questo risulta superfluo l’incontro con l’assistente sociale che imbratta brutalmente il registro linguistico con una spiegazione superflua, che etichetta i due coniugi come mostri pervertiti indegni della genitorialità. Qualcosa traballa nella coerenza del racconto, che poi torna a quell’anarchia paradigmatica che somiglia alla sua protagonista. Libertà che si riverbera nella sessualità spinta di Ema e soprattutto nei numeri di ballo che rievocano il musical, tanto nella composizione delle scene, quanto nell’impianto surreale che mette in parentesi la narrazione come se nulla fosse, per portare a galla suggerimenti di lettura psicanalitica.
Cosicché Larraín, violando deliberatamente gli schemi di genere, se ne infischia del realismo e della credibilità di ciò che accade sullo schermo per produrre sequenze che sembrano originarsi dalla psiche di Ema, tanto che verrebbe da chiedersi se ogni segmento filmico non sia frutto della proiezione dei suoi desideri profondi che invischiano chi le vive vicino, soggiogato dalla sua carica erotica, perfino il figlioletto. Il regista indugia più volte sul corpo sinuoso e sul volto asimmetrico di Mariana Di Girolamo, che interpella il suo mondo, come una luce che sveglia la notte per cacciare falene. In tutto questo Gastón (Gael Garcia Bernal al suo terzo film con il regista cileno) sembra spettatore e attore impotente, dentro e fuori il percorso di Ema, dentro e fuori il suo (di lei) sogno/incubo. E se non fosse per la spiegazione finale, mutuata dalle rese dei conti nelle detective story, altro momento inutilmente prosaico in un film che dovrebbe vivere di rarefazioni, diremmo che le atmosfere sono a tratti lynchiane, con il corpo di Ema che ricorda l’enigmatica scatola blù di Mulholland Drive. Ma di quel cinema purtroppo manca il mistero.
Il piano “diabolico” di Ema è colmo di aporie, le amiche le fanno da spalla come burattini, il vigile del fuoco compare in coincidenza ingiustificata, elementi che riportano alla costruzione di una mente che cerca rifugio in una realtà falsificata per riparare a un peccato originale: aver rifiutato l’amore di un figlio.

Dopo la proiezione veneziana c’è chi ha ravvisato nel film, in linea con la produzione di Larraín, una relazione tra storia e attualità, vedendo in Ema non solo una sabotatrice delle strutture sociali acquisite, ma la portavoce di una contestazione che prende di mira generazioni conservatrici e, magari, nostalgiche. In quest’ottica il reggaeton, ballato sfrenatamente nelle strade, simboleggia la frattura tra padri e figli. Secondo l’analisi spicciola di questi figli arrabbiati, troppo bidimensionali per essere veri, Gastón, critico nei confronti di un movimento che a suo dire non coglie che la superficie delle cose, con quell’erotismo innocuo che nasce già arido, incarna il portabandiera della tradizione.
Eppure le cose sono più complicate. Se Larraín compromette quello che poteva essere un capolavoro, sfregando vistosamente con pasta abrasiva sul sistema del racconto, per poi intercalare la sua sperimentazione con un paio di puntelli rassicuranti e dialoghi spesso didascalici, di certo, affondando nelle correnti sotterranee che agitano il presente, non semplifica per fortuna la tensione che emergeva già nei suoi film precedenti “in costume”. Non certo per ipotizzare futuri guardando in viso la gioventù senza idoli di Valparaíso, ma per portare avanti un progetto che sembra teso a sviscerare l’identità dei cileni in un paese che ha accolto la modernità non come processo antropologico ma come reazione ad anni di dittatura. La dialettica tra coreografo e ballerine ribelli capitanate da Ema (che a differenza delle colleghe è priva di ingenui impianti ideologici) misura l’abisso culturale che li divide. Gastón è forse il personaggio più complesso del film, l’unico vero personaggio tragico, come molti dei personaggi maschili del cinema di Larraín: sterile sessualmente, pervertito secondo la schematica visione del mondo dell’assistente sociale, agganciato al folklore anacronistico secondo le giovani ballerine della compagnia, è meno banale e più alienato di Ema, che di fatto lo esclude anche dal film, nella misura in cui il film è emanazione del suo inconscio.
Non va dimenticato che Gastón è padrone (invisibile) della scena solo durante lo spettacolo performativo che buca lo schermo nei primi minuti di Ema, perché ne è il deus ex machina. Uno spettacolo che avrebbe potuto essere coreografato da Robert Wilson e interpretato da Lucinda Childs, o dall’Alvin Ailey American Dance Theater, ovvero alcuni tra i protagonisti della danza contemporanea che hanno cambiato la cultura del 900 in sinergia con musicisti, performer e scenografi dell’avanuardia artistica, rinnovando la tradizione senza rinnegarla. Che è poi all’origine di ogni iconoclastia. La cultura e l’approccio visionario di Gastón si posiziona in questa cornice. Al contrario il reggaeton rinvia a una danza di gesti pulsionali e quindi più ancestrale, rivoluzionaria oggi solo perché ha dato voce alla contestazione.

Ecco, Larraín guarda al futuro; ma non perché mette un lanciafiamme nelle mani di una giovane disorientata dalla maternità in cerca di uno spazio che col suo corpo erotico diventi armonia, nella speranza che un inganno possa germogliare. Larraín guarda al futuro perché il suo film imperfetto suona come un allarme antincendio in una terra che ha già il colore della cenere.

Alessandro Leone

Ema

Regia: Pablo Larrain. Sceneggiatura: Guillermo Calderón, Alejandro Moreno. Fotografia: Sergio Armstrong. Montaggio: Sebastián Sepúlveda. Musiche: Nicolas Jaar. Interpreti: Mariana Di Girolamo, Gael Garcia Bernal, Santiago Cabrera, Giannina Fruttero, Catalina Saavedra, Mariana Loyola. Origine: Cile, 2019. Durata: 102′.

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