Interno, appartamento. Lower East Side – Manhattan, New York. Sei fratelli adolescenti (o quasi), generati in fotocopia dall’inca-peruviano e seguace di Krishna, Oscar Angulo, e dalla moglie statunitense, stanno inscenando il finale de Le iene di Tarantino. La simulazione sembra un gioco innocente e cinefilo, mentre invece si rivelerà presto essere un vitale contatto con l’esterno. I fratelli Angulo, e la sorellina più piccola, vivono isolati dal mondo, in un appartamento bunker che dovrebbe proteggere la famiglia/tribù dai demoni che popolano la Grande Mela.
Dalle Iene a Batman, i sei fratelli vestono il cinema letteralmente, mescolandolo di tanto in tanto con la passione per il rock. Oscar Angulo non ha segregato i figli dalla nascita per sadismo: raramente li ha accompagnati fuori, legati al guinzaglio, giusto per assaporare l’aria di un parco, una volta l’anno, due, tre, a volte quattro, a volte zero. Le dispotiche leggi paterne sono la conseguenza di paure lontane e radicate, del bisogno insano di tenere simbolicamente in utero la prole indifesa. Consolazione, ristoro, fuga, e in ultima analisi, unica rappresentazione del mondo, è la finzione del cinema: la vita ricostruita in anagrammi sempre differenti, ibridata da avventure iperboliche, provocata dalle eccezioni dei generi letterari, ribadita da ipotesi iperrealistiche. Più che una finestra sul mondo, una chance per esplorare l’ignoto e farsene immagine. Il cinema che si fa materia concreta nei corpi carcerati dei sei fratelli, oltre la cinefilia, antidoto alla segregazione forzata, folle, paranoica. Almeno fino a quando l’adolescenza e il desiderio di libertà si schiantano come un ariete sulla porta di casa, dall’interno verso l’esterno, con la benedizione silenziosa della mamma, che avrebbe voluto crescere la tribù in una fattoria in campagna e col profumo di incenso.
La regista Crystal Moselle costruisce il suo Wolfpack, chiedendo di poter entrare in gabbia nel momento in cui le chiavi cadono dalla tasca del padre padrone. Il racconto definisce così nella prima parte le verità esistenziali dei nove componenti della famiglia, ripresi senza ripuliture estetiche, con macchina a mano e luci diegetiche, eliminando costruzioni da set, ammiccando al cinema amatoriale, così da creare unità estetica con i filmini di famiglia girati con analogica handycam. Successivamente segue le azioni “rivoluzionarie” dei fratelli, coesi nel valicare la soglia di casa dopo un precedente tentativo maldestro del più grande, finito in ospedale. Prendere l’ascensore, lasciare l’edificio, guardare dal basso le finestre del proprio appartamento, calpestare l’asfalto, sentire la carezza di un prato, da soli, in completa autonomia, equivale ad atterrare su un pianeta sconosciuto. La regista si fa complice di tutte le prime volte: il bagno in mare, il cinema alla sera, un bistrot.
Wolfpack è così narrazione di una morte per parto cesario, dove a morire è il padre (sconvolto dalla ribellione dei figli e forse dalla consapevolezza che il passaggio del tempo determina trasformazioni irreversibili) e a tagliare il ventre è la madre, che in fondo sentiva il pericolo di un cordone ombelicale/cappio.
Il documentario è imperdibile per il solo fatto di vederli camminare a New York, tutti e sei in abiti improbabili, con occhialoni da sole, capelli lunghi; sembrano davvero usciti dallo schermo di un cinema di B-movies anni ’50. Tarantiniani alla quintessenza, piacerebbero a Tarantino. Adesso, con gli Angulo a piede libero, New York è più anticonformista che mai!
Alessandro Leone
Wolfpack
Regia: Crystal Moselle. Montaggio: Enat Sidi. Interpreti: la famiglia Angulo. Origine: Usa, 2015. Durata: 90′.