Non solo un regista, non un semplice narratore, ma un ritrattista della vita, osservata e studiata attraverso gli occhi dell’innocenza, del perdono, dell’amore. Jean Jaques Annaud ha superato, nella purezza del silenzio e delle lacrime, un confine tanto sottile quanto visibile, quel limite immaginario, ma di straordinaria potenza, che è il rapporto che lega uomo e natura, due forze complementari eppure distanti, parallele eppure in contatto perenne. L’Ultimo Lupo è la concretizzazione di questa relazione impossibile, l’anello mancante discusso da Montale, che apre lo sguardo sulla comprensione ultima, il miracolo dell’interazione tra esseri viventi di origine diversa.
Nella pace di un territorio estraneo e di una bellezza che i romantici avrebbero definito sublime si apre la storia di Chen Zen (Shaofeng Feng), giovane studente proveniente da Pechino, inviato nelle regioni montuose della Mongolia per educare le comunità dell’entroterra. L’approccio del ragazzo al nuovo mondo, al quale ora deve rapportarsi, si materializza nei suggestivi campi di grano, gialli come il sole, accostati al viola complementare del tramonto. Folate di vento, a ritmi alterni, muovono lunghe onde immaginarie sui prati di sconfinate colline mentre il bestiame pascola nella calma che la città disconosce. Subito fuori, però, oltre i confini di quella metafora di paradiso, altri dei regnano indiscussi, i lupi, creature sacre, ma temute nell’intera regione, padroni autoproclamati regnanti delle aree abitate dall’uomo. Il primo fortuito incontro di Chen col branco è anche il dialogo di maggiore importanza del film.
Personalità di universi differenti si scontrano, si studiano, si minacciano, ma cosa ancora più importante, si rispettano. Ecco che il punto focale del progetto comincia a svelare la sua vera identità, figlio dell’importanza di quel rispetto che desta l’interesse del protagonista a conoscere, a scoprire, a credere.
In questa curiosità si cela la maturazione dell’uomo sulla mole, l’intelletto sull’ignoranza, rappresentata e capeggiata dalla figura dell’ufficiale inviato dal governo, incaricato di uccidere tutti i cuccioli di lupo sul territorio, così che “la minaccia” venga estirpata all’origine.
La ribellione di Chen Zen, memore di quel primo confronto con la figura del lupo, troverà voce nella vita di un cucciolo, salvato e risparmiato al massacro dell’ufficiale governativo.
Dagli occhi in lacrime del giovane protagonista, in una delle inquadrature di maggiore potenza emotiva, si manifesta, luminosa come un lampo, l’ineluttabile verità: il vero nemico è l’odio, frutto dell’uomo e non del lupo, che benché animale si mostra più saggio, più comprensivo, ringhioso non contro un nemico, ma contro un intruso.
Il conflitto, voluto e cercato dai nomadi della regione, condurrà a un punto di non ritorno, all’intraducibilità di quel dialogo atteso e sperato dalla parte animale e compreso da un solo uomo, punto d’incontro dei due mondi, emblema di una tolleranza che tutt’oggi, purtroppo viene a mancare.
Un messaggio di tale importanza, tuttavia, sarebbe rimasto statico e, in tutta probabilità, non avrebbe toccato i nostri cuori senza l’intervento della fotografia di Jean-Marie Dreujou, eroe indiscusso di un’opera rappresentativa di quello che potremmo chiamare il nuovo orizzonte del romanticismo cinematografico, un approccio artistico capace di spiegarsi autonomamente nei primi piani del lupo, osservatore vigile nella notte o nell’inquadratura scioccante dei cavalli ghiacciati nel lago, perfetta rappresentazione di quel sublime del terrore spiegato da E. Burke.
una sceneggiatura semplice (J. J. Annaud, Alain Godard, Lu Wei, John Collee), ma estremamente adatta al contesto ricreato dalla scenografia (Quan Rongzhe), crea uno strato di dolce e rara omogeneità con le musiche di James Horner, dimostratesi capaci toccare le corde dei sentimenti e delle emozioni con delicatezza e sapienza, passando da deboli melodie a climax ascendenti di estrema ed imperiosa forza.
Da sottolineare, in aggiunta agli elogi per il giovane Feng, i ruoli di Yang Ke (Shwaun Dou), Gasma (Ankhnyam Ragchaa) e Bao Shunghi (Yin ZhuSheng), che consegnano al grande cinema tre interpretazioni di notevole importanza, ritratti semplici e mai artificiosi di una storia che mira alle origini, a quell’istante, perso nel tempo, in cui la paura per ciò che l’uomo non comprende lasciò il passo alla tolleranza, alla speranza di cambiare, all’amore per un nuovo inizio, per qualcosa di diverso.
Mattia Serrago
Wolf Totem: L’ultimo lupo
Regia: Soggetto: Laurence Annaud (tratto dal romanzo “Wolf Totem” di Jiang Rong. Sceneggiatura: Fotografia: Jean-Marie Dreujou. Montaggio: Raynald Bertrand. Musiche: James Horner. Interpreti: Shaofeng Feng, Shwaun Dou, Ankhnyam Ragchaa, Yin ZhuSheng, Basen Zhabu, Baoyingexige. Origine: Francia/Cina, 2015. Durata: 121’.