Ci sono gli indiani, i cowboys, gli sceriffi. C’è il Wyoming.
Ma prima ci sono buio e neve, il gelo che soffoca una giovane donna in fuga (si capisce), fino a farle scoppiare i polmoni. Dallo schermo pervade la sala, il gelo. Siamo a Wind River, dove, a furia di spingere, i visi pallidi hanno confinato gli Arapaho. Cory Lambert (Jeremy Renner), cacciatore di lupi e puma che attaccano il bestiame, unico sostentamento della piccola comunità di nativi, trova il corpo della giovane Natalie, congelata nel fermo immagine che l’ha consegnata alla morte. Si apre un’indagine che coinvolge un placido sceriffo, una giovane agente dell’FBI (Elizabeth Olsen) e lo stesso Cory, uomo capace di leggere nei boschi innevati possibili tracce. Prima di morire la ragazza è stata stuprata, un dramma non nuovo in quelle desolate lande. Le indagini non tardano a chiudere il cerchio. Si capisce però che l’intreccio si fa pretesto per raccontare altro.
Wind River (in italia I segreti di Wind River, quali segreti poi?) è un post-western che raccoglie col cucchiaino ciò che è rimasto della mitologia della conquista e impietosamente presenta il conto, sbattendoci sul muso le immagini di una disfatta: la disintegrazione delle comunità dei nativi confinati ai margini, oltre i margini, dei grandi centri urbani, su una terra parallela, regolata da leggi di serie B, per gente senza tutele e misconosciuta, sradicata, perduta nelle sfilacciature del tempo, fino a dimenticare retaggi, tradizioni, appartenenze. Un genocidio senza fuoco e campi di sterminio, ma altrettanto scientifico, soprattutto non riconosciuto, impunito.
Sarebbe ora di far luce su quest’altra America, che non è New York e nemmeno la California, che non ha niente a che vedere con gli intrighi di potere o con la banale ignoranza dell’ultima amministrazione a cui è politicamente corretto oggi dedicare almeno un riferimento implicito in ogni pellicola made in USA. E nemmeno ha a che vedere con l’America conservatrice e razzista degli stati del sud, bandiera nella mano sinistra fucile nella destra (i cui racconti più schietti sono oggi quelli di Minervini, un italiano in fuga). La sensazione è che Taylor Sheridan, già sceneggiatore di Sicario e dell’ottimo Hell or High Water, voglia ripartire proprio dalle frontiere e dai luoghi di confino, come la riserva indiana di Wind River, per forzare una seria riflessione sull’America Oggi cominciando dal tradimento dei valori fondativi, valori democratici basati sul rispetto delle diversità e su certa retorica egualitaria che avrebbe dovuto assicurare opportunità per tutti. Inchiostro su carta, forse, semplicemente. La realtà poi è altra cosa. L’epopea della conquista non è stata indolore e la storia l’hanno scritta e filmata (per il cinema) i vincitori, almeno fino a un certo punto del secolo scorso, quando sul finire degli anni 60 un manipolo di autori figli di Huston scardina i generi e posa uno sguardo diverso sulle genti degli States e i suoi eroi gonfiati. Ford nel Wyoming ci aveva messo Wayne a cavallo, ma già nel 1940, su una direttrice più a sud e con la complicità di Steinbeck, con Furore poneva più di una domanda sulla qualità illusoria del mito.
Sheridan, che alla tradizione non deve nulla e al tempo stesso deve tutto, in quanto setaccia ciò che rimane di un immaginario anacronistico per metterne in evidenza i frutti più amari e guardare dritto al presente, non sembra credere alla contraddizione di un paese che ha sconfessato le linee guida dei padri fondatori; nella sua trilogia, soprattutto in Wind River che lo afferma come regista, sembra ribadire quanto il presente sia diretta conseguenza di una storia costruita sulla sopraffazione violenta. Quel che rimane dei nativi, resistenti guerrieri nelle riserve imposte, ne è una prova: intere comunità disintegrate, disorientate come creature del cielo o dei mari che hanno perduto l’orientamento e vagano, seppur stanziali, alla ricerca di casa, avendo perdute le tracce del proprio passato. I giovani bevono, si fanno di metanfetamine, si tolgono la vita nell’ombra senza aver mai visto la luce. Il fratello di Natalie, disoccupato e disilluso, infoltisce le statistiche con altri disperati. Il cacciatore è lui che cerca per dare una svolta alla vicenda, e lo fa nel nome del padre e della madre che piangono disperati, la scomparsa della figlia. Tra genitori e figli c’è uno scarto che pare incolmabile: i figli fuggono senza una destinazione, i genitori sono incapaci di proteggerli. Wind River è più che uno scenario: magnifico, sublime, inquadrato trattenendo il fiato, forse come Albert Bierstadt quando negli anni 60 dell’800 dipingeva squarci tardo romantici di vette, valli e laghi sotto cieli terribili. Inospitale, inghiotte impietosamente i deboli, come legge di natura impone, anche gli uomini, che o si fanno lupi predatori o soccombono: a cominciare dalle donne stuprate e massacrate. Ne sa qualcosa Cory, che conosce il dolore e lo asseconda per poterci convivere, e per questo empatizza con l’amico Marty, padre di Natalie (Gil Birmingham), e comincia a dare la caccia agli uomini-lupo, trasformando un thriller in un horror tra le nevi, fino alla resa dei conti, una scena madre indimenticabile che dovrebbe fare giustizia ma che lascia tanta amarezza, anche quando il cerchio si chiude e il regista concede al più bestiale dei personaggi una soggettiva che gli regala una pietas inaspettata nel candore del Gannett Peak, che per un attimo diventa la vetta più alta del mondo.
Il regista scrive e dirige alla perfezione. Non un solo dialogo puzza d’artificio, la splendida colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis non grida, sussurra dolente; l’intreccio conduce verso un crescendo drammatico che non dimentica mai di scavare senza retorica nei personaggi e nella loro condizione esistenziale (Marty che ha dipinto il suo volto senza conoscerne il senso, sepolto in rituali di cui s’è persa memoria). Il tessuto miserevole dei nativi non si fa mai illustrazione sociale o, peggio, dichiarazione politica, ma si evince dai dettagli della messa in scena, dai volti disillusi di attori in stato di grazia, dallo sguardo sconcertato e fanciullesco dell’agente federale, donna caparbia e impreparata che vive in questa tragedia il suo romanzo di formazione.
Sheridan si guarda bene dal costruire subplot fasulli, tenendo teso teso il suo racconto tra azione ed emozione ma senza furbi orpelli, come Lonergan in Manchester-by-the-Sea, che con I segreti di Wind River ha qualche affinità. E come quel film, anche questo – dopo la Palma a Cannes per la miglior regia – avrebbe meritato di esserci nei listini dei candidati agli Oscar, non fosse che Harvey Weinstein, prima dello scandalo, intervenne nella produzione, rendendo (perché poi?) il film ineleggibile per i membri dell’Academy. Robe da pazzi!
Alessandro Leone
I segreti di Wind River
Sceneggiatura e regia: Taylor Sheridan. Fotografia: Ben Richardson. Montaggio: Gary Roach. Musiche: Nick Cave, Warren Ellis. Interpreti: Jeremy Renner, Elizabeth Olsen, Jon Bernthal, Kelsey Asbille, Julia Jones, Norman Lehnert, Martin Sensmeier, Gil Birmingham, Graham Greene, Ian Bohen. Origine: GB/Canada/USA, 2017. Durata: 111′.