Partiamo da The Mountain di Rick Alverson. Il regista americano è noto soprattutto nel mondo indipendente, aveva già diretto The Comedy e Entertaiment. In questo nuovo lavoro schiera un cast clamoroso con Tye Sheridan, Jeff Goldblum, Denis Lavant e Udo Kier, e ambienta la storia nell’America degli anni Cinquanta: un giovane ha perso la madre ed è cresciuto insieme a un padre con gravi problemi emotivi, il ragazzo andrà a lavorare con un medico che esegue lobotomie e elettroshock. Durante le visite agli ospedali psichiatrici, il giovane comincia a identificarsi con i pazienti, in particolare con la figlia di un carismatico leader del nascente movimento New Age nelle regioni dell’Ovest. È interessante lo sguardo sul mondo degli ospedali psichiatrici negli anni ’50, ma Alverson punta più alle belle inquadrature che a raccontare veramente, gira con un 4:3 di sicura bellezza ma in ogni immagine dimostra attenzione al dettaglio e disprezzo per i suoi personaggi, il racconto è purtroppo presto privo di vita e di interesse e si percepisce una non umanità che infastidisce non poco. Verso la fine l’ingresso in scena di Denis Lavant affossa completamente il lavoro, lo porta in un’altra dimensione, il grande attore francese fa proprio il film con smorfie e balletti senza senso alcuno, la storia così sbraca completamente e il finale è sorprendentemente terribile. Pare assurdo che un film così sia stato preso in Concorso.
Non proprio deludente, ma poco interessante, è The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen. È un western che vede come protagonisti Tim Blake Nelson, James Franco, Liam Neeson, Tom Waits, Bill Heck, Zoe Kazan, Tyne Daly, Brendan Gleeson. In verità si tratta di una mini-serie ambientata con sei storie di 20 minuti che si susseguono: un cowboy canterino; un inetto ladro di banche e bestiame; uno show teatrale itinerante; un cercatore d’oro alla ricerca del sogno americano; una carovana con una donna in viaggio verso la fortuna; cinque passeggeri di una diligenza diretta verso una meta misteriosa. Il film dei fratelli Coen era tra i più attesi dell’intero Festival: è una rielaborazione del tema che gioca su tutti gli stereotipi del western, li prova a reinventare o li cavalca con qualche guizzo dei loro. Alcuni episodi sono anche piacevoli ed è interessante che i Coen giochino con il grande genere del cinema americano: ogni episodio ha un registro diverso, dal musical al comico, dal gotico nerissimo al dramma. Ne esce una piccola antologia di storie western che però poco aggiunge al genere e alla carriera dei due fratelli. Il film uscirà su Netflix a breve.
Suspiria di Luca Guadagnino meriterebbe un lungo discorso, è il remake del celebre horror di Dario Argento che era atteso da diverso tempo. Come nell’originale la storia è ambientata in una famosa scuola di danza: Susie arriva per un’audizione, conquista la direttrice con una strepitosa performance e viene presa nella scuola. Parallelamente iniziano a scomparire studentesse, il vecchio psicologo di una di queste comincia a indagare su queste scomparse. L’oscurità inghiottirà pressoché tutto, alcuni soccomberanno all’incubo, mentre altri si sveglieranno. Il film è solo a tratti un horror (anche se nella parte finale diventa splatter) ma per due ore a Guadagnino sembra interessare più il rapporto madre/figlia con continue digressioni all’interno della scuola. Il film affascina nelle scene di ballo, coreografate benissimo che creano una tensione molto interessante. Però la trama principale nella scuola è sfilacciata e perde sostanza per la presenza delle sottotrame che appesantiscono la narrazione: ad esempio tutta la storia del vecchio psicologo con riferimenti al nazismo porta il film in direzioni strane che poi non vengono pienamente sviluppate. Non si spiega neanche perché il film sia ambientato nel 1977 con il terrorismo della Raf sullo sfondo, tutto un discorso didascalico e davvero inspiegabile oltre che inutile. Il cast è di altissimo livello ma Chloë Grace Moretz scompare subito dopo un inizio folgorante, Dakota Johnson nei panni di Suspiria sembra la Jennifer Lawrence anarowskiana di Mother, mentre Tilda Swinton si sdoppia tra l’algida Miss Blanc e il vecchio professore, chissà perché sempre interpretato da lei. Nel complesso non è un remake del film di Argento, è un film totalmente diverso e non è un dramma vero e proprio, è un ibrido che sicuramente ha cose notevoli ma mai veramente portate a compimento. Guadagnino fa un cinema che per fortuna rischia ma che non arriva fino in fondo alla sua ricerca.
E con grande dispiacere si è aggiunto anche Napszallta (Sunset) di Laszlo Nemes. Il regista ungherese è ormai noto in tutto il mondo per lo straordinario Il figlio di Saul, che ha ottenuto l’Oscar per il miglior film straniero. In questo ultimo lavoro Nemes sposta la sua storia a inizio ‘900 a Budapest, la giovane Irisz arriva nella capitale ungherese con il sogno di diventare modista nella cappelleria appartenuta ai defunti genitori. Arrivata al negozio però viene cacciata dal nuovo proprietario: sono in corso i preparativi per l’arrivo di ospiti importanti. La trama poi si dipana con lei alla ricerca di Kalman Leiter, il fratello pazzo e probabilmente omicida. Il film è una evidente metafora dell’arrivo della prima guerra mondiale e della distruzione dell’impero austro-ungarico e di tutto quello che rappresentava. È un momento storico fondamentale, una civiltà a un bivio, nel cuore dell’Europa, all’apice del progresso e della tecnologia, la vicenda di Irisz diventa il riflesso della nascita del Ventesimo secolo. Il film segue la protagonista da molto vicino consentendo un approccio identico a quello di Saul, tutto l’orrore e le scene madri sono fuori campo e noi le osserviamo sul volto di lei, sempre in primo o primissimo piano. Un lavoro clamoroso sullo sguardo che ci fa calare nel labirinto pieno di ostacoli che la Irisz percorrerà, attraverso il suo volto andiamo a scoprire il significato del mondo. Il problema è proprio la vicinanza col film precedente, è esattamente lo stesso meccanismo: là il campo di concentramento, qua l’Europa in fiamme. Forse non è la stessa cosa e forse il formalismo stupefacente non basta per supplire a un racconto che volteggia troppo, come la Storia evidentemente, e ci porta a un finale molto ambiguo che è meglio non svelare. In Italia uscirà in sala con Movies Inspired dall’autunno prossimo e si avrà l’occasione per confrontarsi con questo mondo impervio.
da Venezia, Claudio Casazza