Un verdetto abbastanza equilibrato, andando sul sicuro, ma distinguendo quasi tutti i film o le interpretazioni che spiccavano o rientravano nelle aspettative generali. Così la Mostra del cinema di Venezia numero 81 si è chiusa senza particolari polemiche e un palmarès che accontenta la gran parte.
Il Leone d’oro a Pedro Almodovar per La stanza accanto ci sta tutto, anche se, osando di più, i giurati avrebbero potuto assegnarlo a The Brutalist di Brady Corbet, un film sontuoso per quanto non impeccabile, che ha portato qualcosa di nuovo e davvero di artistico.
Almodovar ha ricevuto il premio principale di un festival dopo aver ricevuto quello alla carriera nel 2019 ed è forse la prima volta che accade. Considerare La stanza accanto un film sull’eutanasia è inappropriato, giacché di volontà di suicidio si tratta. Se Almodovar ha fatto in passato film più belli, poco importa, questo è uno dei più meritevoli del concorso, oltre a essere più complesso di quanto possa apparire.
Fa piacere il Leone d’argento – Gran premio della giuria all’Italia per Vermiglio di Maura Delpero, il migliore dei nostri cinque in gara, anche se forse è un po’ generoso. Sarebbe stato forse più a misura del premio speciale della giuria, andato invece al duro e dirompente April della georgiana Dea Kulumbegashvili, prodotto da Luca Guadagnino, rimasto invece a mani vuote cn il suo Queer. Vermiglio è un rigoroso ritratto delle Alpi sul finire della guerra, delle divisioni (anche geografiche) presenti in Italia, sulla fine della civiltà contadina e sull’emancipazione femminile, un film riuscito nel suo piccolo.
La giuria ha premiato quasi tutti i migliori, anche se è rimasto fuori Youth (Homecoming) di Wang Bing, terzo capitolo dell’imponente trilogia documentaria sui giovani lavoratori migranti interni nella provincia industriale di Zhili. E che rimanesse fuori dai premi Joker: Folie à deux di Todd Phillips, con gli strepitosi Joaquin Phoenix e Lady Gaga, era quasi scontato, un film che ha deluso molti e che invece merita attenzione e una visione senza pregiudizi.
L’81ma edizione non ha avuto grandi acuti, ma si è chiusa con note molto positive come le numerose star internazionali presenti (“sembra di essere a Cannes” era un commento ricorrente tra chi frequenta entrambi i festival), l’attenzione mediatica e la crescita del pubblico, che ha affollato tutte le proiezioni. Negli ultimi anni la Biennale ha migliorato la parte logistica, soprattutto la parte relativa alle sale e agli spazi di lavoro, mentre c’è ancora da fare per un coordinamento con l’esterno che faciliti la vita ai festivalieri, dalle lunghe code ai vaporetti alle difficoltà di mangiare decentemente a prezzi accessibili senza allontanarsi troppo dall’area della Mostra. Forse è tutta la città di Venezia e la Regione (visto il peso della politica regionale) a dover provvedere per sistemare questi aspetti, mentre ora accreditati e spettatori sembrano ospiti sgraditi, mentre gli amici dei politici di turno ne beneficiano.
Tornando ai premi, brava Nicole Kidman, giustamente premiata pur in un film che rasenta il ridicolo: paradossale che l’attrice di Eyes Wide Shut prenda la Coppa Volpi per Babygirl. Meritata pure la coppa a Vincent Lindon che si prende sulle spalle Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin, film forse troppo narrativo e quadrato che affronta però la crescita dell’estrema destra in Europa e cosa può fare un padre operaio e vedovo, ex sindacalista, che si trova in casa un figlio che odia gli immigrati. Un premio all’interpretazione e al messaggio della pellicola.
Forse avrebbe meritato anche il sempre bravo Daniel Craig di Queer di Luca Guadagnino, capace di tenere vivo un film di ozio esotico che rischia di diventare esso stesso ozioso.
La selezione della gara si è mostrata ancora una volta altalenante, con diversi film deboli o non da concorso, come lo stesso Babygirl, l’inutile Harvest di Athina Tsangari o lo squilibrato e ripetitivo Leurs enfants après eux di Ludovic e Zoran Boukherma. E soprattutto tanti film canonici e pochi davvero da Mostra d’arte. Il migliore dei canonici è sicuramente I’m Still Here di Walter Salles, fatto bene, toccante, politicamente centrato, un film che ha preso il Premio alla sceneggiatura ma avrebbe pure potuto ambire ai Leoni e ora si spera sarà apprezzato dal pubblico. Capitolo a parte i troppi italiani, cinque su 21 sono una dose eccessiva, uno spazio esagerato alla produzione nazionale anche quando si trattasse di lavori riusciti, ma stavolta sia più nel terreno delle occasioni mancate, soprattutto per Iddu e Diva futura.
E se indicare a posteriori quali titoli sarebbero stati bene in concorso è sempre un giochetto tardivo e sterile, i candidati non mancano, da Lav Diaz collocato fuori concorso con Phantosmia, all’ottimo documentario Russians At War di Anastasia Trofimova, sui combattenti russi in Ucraina. Ancora il corale romeno The New Year That Never Came di Bogdan Muresanu, premiato come Miglior film di Orizzonti quando avrebbe potuto ricevere un riconoscimento nella competizione maggiore. Significativo che il cinema romeno degli anni 2000, affermatosi come il più vitale e originale del panorama europeo, non abbia mai trovato posto nel concorso di Venezia, un’assenza che stupisce sia per le affinità tra i due Paesi sia per la qualità e il numero di opere valide provenienti da Bucarest.
Caso a parte il magnifico western Horizon: An American Saga di Kevin Costner, un film considerato anacronistico solo da chi non capisce il cinema. La seconda parte, inserita nel programma nelle ultime settimane, ha dato lustro alla giornata conclusiva con la presenza dell’applauditissimo attore e regista e di parte del cast. Un film dall’impostazione classica e d’altri tempi, dal grande respiro narrativo e che parla molto all’oggi. Ora ci si aspetta di trovarla presto in sala, mentre Costner ha annunciato che farà il possibile per completare la terza e la quarta parte che compongono il progetto, nonostante il risultato deludente al botteghino del primo capitolo.
da Venezia, Nicola Falcinella