Presentato in Notti Veneziane, lo spazio off delle Giornate degli Autori, in collaborazione con Isola Edipo, Vakhim è una delle sorprese più piacevoli ed emozionanti di questa Mostra di Venezia.
Vakhim è un bambino cambogiano adottato da una famiglia italiana quando aveva quattro anni, arriva in Italia nel 2008. Parla solo khmer e tutto intorno a lui è sconosciuto, è un bambino solare e per adattarsi rimuove le tracce della sua breve vita in Cambogia, e inizia a crearsene una nuova in Italia. La regista Francesca Pirani è la madre adottiva, lo filma film da piccolo, le prime riprese che vediamo sono addirittura nell’orfanotrofio dal quale viene adottato. Il cinema è già presente dai suoi primi passi italiani, con i filmati di famiglia percorriamo infatti la sua infanzia e la sua crescita.
A poco a poco quelli che dovevano essere semplici film di famiglia, diventano la testimonianza di un distacco: Vakhim impara presto la nostra lingua e si adegua, come fanno tutti i bambini adottati, al nostro mondo, ma in questo modo dimentica la lingua khmer e i pochi ricordi che aveva della sua terra natia.
È un film che nella prima parte crea anche disagio perché, non so quanto consapevolmente, mette in gioco l’egoismo di chi adotta e le conseguenze di tale scelta. Il passato però non rimane nascosto e ritorna con forza, e con esso le scoperte improvvise: i genitori pensavano che Vackim fosse figlio unico ma invece, quasi casualmente, grazie all’incontro con altre famiglie che hanno adottato altri bambini dalla Cambogia, scoprono che ha una sorella di qualche anno più grande, Maklin. I genitori dei due bambini riescono a mettersi in contatto e, passato un anno da quando sono arrivati in Italia, i due fratelli si ritrovano, lei vive a Rimini, lui a Roma, ma da quel giorno seppur a distanza il loro rapporto proseguirà.
Dopo qualche anno arriva una lettera: è la madre naturale di Vakhim che chiede ai genitori adottivi notizie del figlio. I due fratelli si confrontano duramente, sono già abbastanza grandi, lei va all’università, lui si sta per diplomare. Inizialmente pensano cose molto diverse: lei non vede l’ora di andare in Cambogia a cercare qualcosa di sé stessa, lui è pieno di diffidenza, forse di paura.
Il film ha la voce narrante della Pirani, un po’ come madre e un po’ come regista del film, che fa da contrappunto alle immagini, c’è molto repertorio privato all’inizio e molte nuove riprese da metà film in poi. È un documentario che utilizza il cinema come mezzo per ricostruire un ricordo del passato, per questa ragione la regista ha utilizzato linguaggi diversi: le ricostruzioni dei ricordi di Vakhim e Maklin in Cambogia hanno un carattere più cinematografico, il diario di viaggio invece ha uno stile totalmente documentaristico e racconta così gli stati d’animo di Vakhim e Maklin, le notizie che arrivano sulla madre naturale fino ad arrivare a un finale molto commovente.
Grazie a un ottimo montaggio, questi due piani narrativi scivolano con leggerezza e senza soluzione di continuità dalla finzione alla realtà, dal passato cambogiano al presente italiano, conferendo così verità ma anche livelli differenti di interpretazione alle immagini. Ne esce un film molto potente che affronta una storia intima e personale in cui risuonano temi universali: la perdita degli affetti, il rapporto genitori/figli, la difesa della memoria e dell’identità culturale. Non so se sia completamente “giusto” l’uso che fa del cinema e di come questo venga quasi “imposto” a Vakhim fin da piccolo, ma sicuramente è grazie alla potenza della “macchina cinema” che ci restituisce sensazioni, ricordi e associazioni improvvise, per mostrarci così quella realtà invisibile che il bambino ha in poco tempo dimenticato ma che ora emerge prepotentemente.
Vakhim è molto di più di un documentario sulle adozioni: è un film sulle separazioni, sulla memoria, sulla ricerca delle proprie origini e del proprio passato. È un film piccolo ma importante, che pone domande, mette in dubbio molte nostre sicurezze, che sa raccontare in modo intelligente una storia personale e che crea soprattutto emozioni. Quello che dovrebbe fare sempre il cinema insomma.
da Venezia, Claudio Casazza