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Venezia 81: Apocalypse in the Tropics

Quando finisce una democrazia, e inizia una teocrazia?

Fuori concorso arriva un film molto importante che ci racconta il Brasile di oggi e lo fa attraverso una prospettiva molto interessante: la religione che sta diventando sempre più politica.
In Apocalypse in the Tropics, Petra Costa indaga il crescente potere che i leader religiosi esercitano sulla politica brasiliana. La regista riesce a mettersi in contatto con i massimi leader politici del suo Paese, tra cui il presidente Lula e l’ex presidente Bolsonaro, nonché con il telepredicatore più famoso e influente del Brasile: Silas Malafaia, un carismatico pastore che fa il burattinaio del leader di estrema destra.
Il film segue il ruolo centrale svolto dal movimento evangelico nei recenti disordini politici in Brasile, mostrando anche la teologia apocalittica che guida i suoi protagonisti. Come nel suo film nominato all’Oscar The Edge of Democracy, Costa intreccia passato e presente e ci fa immergere così nelle realtà contraddittorie di una giovane democrazia appesa a un filo e ne fa anche un avvertimento per il resto del mondo.

Apocalypse in the Tropics è un documentario potentissimo che cerca di farci capire perché la democrazia è in pericolo in molti posti del mondo e perché il Brasile rappresenta un caso emblematico di questa crisi. Nel 2016, un Congresso conservatore ha votato per l’impeachment del presidente Lula per ragioni apertamente politiche, gettando la società nel caos. La regista parte da qui e da questo vuoto di potere, sceglie la strada di raccontarlo attraverso i leader evangelici che prendono sempre più possesso del discorso politico. Vediamo subito un gruppo di pastori evangelici che attraversano la sala plenaria del Parlamento benedicendo i seggi dei legislatori. Erano determinati a istituire un governo di “veri credenti” e ad abbattere il “muro tra Chiesa e Stato”.
Costa ci porta così a viaggiare attraverso i simboli e i misteri del cristianesimo e, allo stesso tempo, nel disordine politico nel quale è sprofondato il Brasile; ci mostra moltitudini di persone ascoltare il telepredicatore Silas Malafaia. Vediamo così l’elezione di Bolsonaro che ha avuto l’appoggio molto influente della chiesa evangelica: dal film apprendiamo che ha avuto un boom di fedeli allucinante negli ultimi dieci anni, ed è passata dal 5 al 30% dei fedeli brasiliani, diventando così un potere di fatto nella politica brasiliana capace di scegliere ministri o membri della Corte Suprema.

In una visione sempre più apocalittica la regista ci mostra fedeli in ginocchio per le strade, che interpretavano la pandemia come un segno di Dio. Il film segue però anche persone meno fondamentaliste e ci fa capire che in momenti di crisi la fede è un rifugio, e scaturisce da un bisogno umano profondo e ineludibile. Costa sembra dirci che la religione dovrebbe essere compatibile con la vita e con il funzionamento della democrazia, ma non è sempre così. Lo stesso Lula inizialmente non voleva avere niente a che fare con queste chiese, ma alla fine anche lui ha dovuto confrontarsi con loro, se non chiedere apertamente di votare per lui.
Arriviamo così fino ai nostri giorni e all’assalto al Parlamento dopo le ultime elezioni, un avvenimento tanto simile a quello avvenuto al Campidoglio quattro anni fa.

È un film in alcuni passaggi troppo didascalico e cronologico. ma che consideriamo molto importante perché ci fa capire la fragilità della nostra democrazia e la potenza del fervore religioso che può contrapporsi a essa e metterne così fortemente a rischio gli stessi ideali democratici.

da Venezia, Claudio Casazza

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