Due film non pienamente riusciti fanno un discorso che è però molto interessante, sono due produzioni diversissime ma che provano a dire qualcosa sul nostro contemporaneo. In concorso nella sezione Orizzonti.
The man who sold his skin di Kaouther Ben Hania racconta la storia di Sam Ali, un giovane siriano sensibile e impulsivo che fugge dalla guerra lasciando il suo paese per il Libano. Da qui vorrebbe arrivare in Europa e vivere con la fidanzata libanese. Dopo essere stato arrestato, è costretto a scappare clandestinamente, perde le tracce della sua ragazza e accetta così di farsi tatuare la schiena da uno degli artisti contemporanei più intriganti e sulfurei del mondo. Trasformando il proprio corpo in una prestigiosa opera d’arte può così viaggiare per il mondo. In questo modo Sam finisce però per rendersi conto che la sua decisione potrebbe non significare la vera libertà.
Il punto di partenza del film è geniale, l’uomo normale che diventa opera d’arte per fuggire dalla guerra è un incipit incredibile, infatti le merci sono davvero sempre libere di muoversi, gli esseri umani no. C’è da dire che il progetto nasce davvero da una simile opera dell’artista belga Wim Delvoye (Tim, 2006). Dopo questo inizio clamoroso però il film si perde in una storia d’amore poco appassionante e anche il tentativo di fare della crudele ironia, un po’ alla The Square, non è proprio riuscito. In definitiva The man who sold his skin rimane comunque un’allegoria sulla libertà personale in un sistema marcio e lontano dalla realtà.
Mainstream di Gia Coppola racconta di Frankie, una ragazza sui vent’anni (Maya Hawke, la famosa figlia di Uma Thurman e Ethan Hawke) che vive appena oltre Hollywood Boulevard. La giovane sta cercando di capire chi vuole essere. Con il pensiero della morte del padre che ancora non la abbandona, Frankie è consapevole di voler fare qualcosa di significativo nel mondo dell’immagine. Intrappolata, insieme al suo migliore amico Jake, nel lavoro di barista in un cabaret di quartiere, Frankie mette in discussione ciò cui la gente oggi attribuisce realmente valore. L’incontro con il pazzoide Link (Andrew Garfield) le dà l’ispirazione per filmarlo e mettere in rete le sue invettive contro il conformismo. Con l’aiuto di Jake, questo improbabile gruppo di outsider otterrà la fama su internet. Tuttavia è difficile conservare la lucidità quando la pressione aumenta e la fama arriva facilmente. Link diventa la personificazione di tutto quello che un tempo condannava fino ad umiliare pubblicamente una giovane fan, Isabel.
Attraverso Mainstream la regista vuole raccontare una storia incentrata sui social media e sull’effetto nefasto che esercitano sulla psiche umana. La Coppola prova a raccontare il modo in cui questa nuova forma di connessione genera narcisismo e insicurezza, e lo fa con un film che utilizza proprio lo stile e la grafica dei social: cellulari, video youtube, emoticon sullo schermo. Vorrebbe così mostrarne i limiti e le malvagità, ma usando lo stesso linguaggio il risultato è un film confuso, un miscuglio che perde a poco a poco senso, e la denuncia della degenerazione dell’immagine diviene proprio adesione alla stessa.
da Venezia, Claudio Casazza