In questi primi giorni di festival Dashte Khamoush (The Wasteland) di Ahmad Bahramiè indubbiamente è il film che ci ha colpito maggiormente, si tratta un lavoro estremamente politico ed umano e dal punto di vista formale pregevolissimo. È un racconto di una piccolissima comunità di dimenticati al confine nord iraniano: nel mezzo del deserto circa una ventina di persone – uomini, donne e bambini – lavorano in un mattonificio che produce mattoni ancora in modo tradizionale. Famiglie di etnie diverse lavorano nella fabbrica e il capo sembra essere in grado di risolvere i loro problemi. Lotfollah, un quarantenne nato proprio nella fabbrica, è il sorvegliante, ma funge anche da tramite tra operai e padrone. In un giorno qualunque quest’ultimo chiede a Lotfollah di riunire gli operai davanti al suo ufficio perché vuole annunciare loro una novità importante.
Il film ci mostra le azioni ripetitive nel mattonificio in un luogo che ha reso gli operai esseri umani disillusi e docili. La ripetizione è una delle caratteristiche principali del film che è ambientato lungo un’intera giornata con una gestione del tempo straordinaria, il regista iraniano ripete più volte una sequenza che ci permette e a poco a poco di scoprire sempre qualcosa di più della storia. Questa sequenza è quella in cui il padrone comunica agli operai il futuro del mattonificio, nella reiterazione c’è il lavoro ripetitivo e ci sono i colloqui personali tra capo e lavoratori in cui ognuno dice la sua verità, un po’ come Rashomon di Kurosawa. Riferimenti altissimi per un film importante che ha nella forma un aspetto molto interessante: Bahrami gira in 4:3 e in un bianco/nero che ci riporta indietro nel tempo e che rinchiude i personaggi in un formato ristretto. È sostanzialmente girato solo con panoramiche per accentuare questa ripetizione dei movimenti, senza primi piani e con solo quattro leggerissime zoomate durante la famosa riunione. Fare un film oggi con solo panoramiche è un’impresa che Bahrami compie con apparente semplicità consentendo comunque di creare empatia coi personaggi.
The Furnace di Roderick Mackay è un altro film che ha nel deserto il suo principale protagonista. Siamo nel 1897 in Australia occidentale, per sfuggire a una dura esistenza e tornare a casa, un giovane cammelliere afgano si allea con un misterioso cercatore d’oro in fuga con due lingotti d’oro da una dozzina di chili con il marchio della corona. L’improbabile coppia deve fuggire dalla polizia britannica per raggiungere una fornace segreta per poter fondere l’oro rimuovendo il marchio della Corona.
Il film è un classico western che ci fa scoprire un mondo a noi poco conosciuto, l’Australia al tempo era piena di carcerati inglesi ma anche di molti afgani, indiani, cinesi. Il western ha uno sviluppo classico e si trasforma in una improbabile storia di eroi alla ricerca della propria identità in una terra desolata e lontana da tutto. L’opera fa così luce sulla storia dimenticata dei cammellieri “Ghan” australiani: musulmani, sikh, indù, persiani. Questi cammellieri costituirono la principale forma di esplorazione e di trasporto merci tra le colonie e i campi dei minatori d’oro, hanno esplorato l’interno desertico del paese, stringendo così dei legami unici con gli aborigeni locali. Furono essenziali per il costituirsi della nazione Australia e tuttavia dovettero sopportare molti pregiudizi e furono spesso costretti a contratti di lavoro forzato. Il film racconta questo mondo attraverso i classici stilemi del western con grandi paesaggi e personaggi che a poco a poco scoprono se stessi, non mancano le rapine e le sparatorie ma è soprattutto un film pieno di molta umanità.
da Venezia, Claudio Casazza