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Venezia 77: Guerra e pace è forse il miglior film del festival

Il ritorno a Venezia di Parenti e D'Anolfi

Guerra e pace  è il ritorno alla Mostra di Venezia di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti dopo Spira Mirabilis di tre anni fa. Il loro nuovo film, in concorso nella sezione Orizzonti, mostra e analizza l’ultracentenaria relazione tra cinema e guerra, per ragionare sulla violenza che imperversa nel mondo e su come l’immagine ce la restituisce. Il film è scandito in quattro capitoli (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro) e prova a ricomporre i frammenti della memoria visiva dai primi del Novecento a oggi. I due registi milanesi partono dagli albori del cinema di guerra, nel lontano 1911, in occasione dell’invasione italiana in Libia, e arrivano fino ai giorni nostri, passando dalle sequenze filmate dai pionieri del cinema come Comerio alle odierne riprese girate con gli smartphone nei mille conflitti che vediamo tutti giorni sul web o alla televisione. È un film che ragiona in modo analitico sulla realizzazione e conservazione delle immagini, sul motivo per cui vengono realizzate e sull’uso che se ne può fare dopo la loro produzione.
Il cinema fin dalle sue origini ci mostra un legame fortissimo con la guerra più che con la pace, un po’ per lo spirito che ha attraversato la prima metà del secolo scorso, un po’ per la necessità di documentare gli eventi storici. Il film parte perciò con le immagini dell’invasione italiana della Libia, sono immagini girate ad uso e consumo della propaganda, per essere viste dal pubblico in Italia e far arrivare il messaggio chiaro e forte della potenza bellica dell’esercito italiano. Parenti e D’Anolfi ce le mostrano prelevandole dall’archivio al momento del restauro e così hanno uno spazio privilegiato per ri-trovarne il senso, scomporle e analizzarle provando a capirne il contesto storico e l’uso memoriale attuale.

Nella seconda parte ci gettiamo invece nel contemporaneo e nella “gestione della guerra” tra passato e presente: le immagini ci portano sempre in Libia ma le vediamo dalle sale della Farnesina, l’unità di crisi del Ministero degli interni che lavora per capire dove sono gli italiani in guerra e capire come e se intervenire. Mappe, immagini che provengono dai cellulari, telegiornali. Così i nostri diplomatici capiscono cosa succede nel mondo. Parenti e D’anolfi stanno in osservazione, alla maniera di Wiseman, dentro il palazzo del potere che prova a capire qualcosa di quel che succede prima a Mogadiscio e poi in Siria. La normalità e l’assurdità della guerra vista nelle stanze che dovrebbero controllarla.

La terza parte è clamorosa, all’interno della Scuola delle Immagini dell’esercito francese. I due registi milanesi l’hanno scoperta perché il primo archivio storico di immagini di guerra è proprio quello del Ministero della difesa francese: immagini dall’Africa all’Indocina che mostrano la potenza militare della Francia e gli orrori commessi in territori più o meno lontani. Entrare in questo archivio è un privilegio di pochi, infatti molte immagini sono non mostrabili neanche ai soldati stessi. Parenti e D’Anolfi riescono a entrarci e ci mostrano proprio i soldati che si interrogano esaminando l’archivio, imparano a fotografare e comprendono l’ideologia della rappresentazione. Studiano per manipolare, per costruire immagini o filmati atti a mostrare la potenza dell’esercito, ma si interrogano anche se è giusto o non è giusto fotografare in un mondo che è un bombardamento continuo di fotografie e video.

Lo sguardo degli autori è evidentemente critico, ci fanno percepire chiaramente quanto sono pericolose le immagini, la crudeltà del cinema, la sua ferocia sia nel passato che nel presente e ovviamente sulle sue conseguenze, sul senso della storia e della conservazione della memoria a beneficio delle future generazioni. Nel finale vediamo i magazzini dove vengono conservate/congelate le pellicole, i due registi pongono il proprio sguardo rivolto alla materia pesante, analogica, quella della pellicola, e si chiedono cosa sarà della memoria senza più testimoni diretti, l’Olocausto è l’esempio evidente. In questo modo noi non possiamo che pensare alla fallibilità dell’archivio del digitale, il non-archivio della miriade di immagini che vengono prodotte di questi tempi. Una memoria che viene costantemente condivisa nell’immediato, tutti i giorni sui social media e che non saranno mai archiviabili, rimarranno intangibili, impossibili da fermare.

da Venezia, Claudio Casazza

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