Si apre questa sera la 75ma edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia, il film di apertura che sarà mostrato al pubblico è First Man di Damien Chazelle, il nuovo lavoro del regista di La La Land. Il film racconta la storia della missione della Nasa per portare l’uomo sulla luna e si concentra sulla figura di Neil Armstrong negli anni tra il 1961 e il 1969. Un film totalmente distante da La La Land, basato sul libro di James Hansen e che esplora i sacrifici fatti per una delle missioni più pericolose della storia. Chazelle tenta di esplorare il tema in profondità, e ha l’obiettivo di mostrare la follia, la perdita del controllo di fronte al pericolo dell’impresa. Si concentra in maniera quasi ritmica sule morti che sono avvenute per cercare questa “prima volta” e racconta anche come si sia rischiato più volte il fallimento. Il film esplora cosa ha spinto quegli uomini a intraprendere un viaggio nella vastità dello spazio e quale sia stata l’esperienza vissuta, momento dopo momento, passo dopo passo. E per poterlo capire Chazelle sceglie giustamente di addentrarsi nella vita privata di Neil Armstrong, ci buttiamo con lui nello spazio e dentro al suo casco, sballonzoniamo dentro la navicella con il frastuono del razzo che parte o dei rumori che invece si spengono quando si trapassa l’atmosfera. Protagonista assoluto è Ryan Gosling nei panni di Neil, che riesce a portarci tutta la sua determinazione e pazzia, fredda e lucida. Ma nel cast è molto importante anche Claire Foy che interpreta la moglie dell’astronauta americano, la loro storia fredda e quasi glaciale è interessante perché sposta continuamente l’attenzione dalla Luna alla vita coi bambini, in un montaggio banalmente alternato riesce a restituirci le difficoltà dell’Impresa dal lato umano, tra l’immensità dello spazio e il tessuto della vita quotidiana. Il film riesce così a mettere in luce il tormento, la gioia, i momenti di vita vissuta e perduta in nome di uno dei traguardi più celebri della nostra storia. Quello che non funziona nel film è una certa ripetitività di questi passaggi, una certa lunghezza (2h20′ come ogni film di Hollywood ormai) e uno sguardo sulla fantascienza non dissimile dai molti film già visti. Il film sarà distribuito da Universal e uscirà al cinema già in autunno ed è già un papabile candidato agli Oscar 2019.
Sulla mia pelle di Alessio Cremonini ha aperto invece Orizzonti, la seconda sezione più importante del festival. Il film ci fa immergere negli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi e della settimana che ha cambiato per sempre la vita della sua famiglia. La cronaca ci ha spiegato tutto del caso, dei processi di assoluzione dei carabinieri a quelli di condanna; abbiamo visto più volte quelle foto atroci, dolorosissime del volto tumefatto di Stefano Cucchi; e sappiamo che la sua morte è stata ingiusta e “inaccettabile dal punto di vista sociale e civile” (parole di Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, che vengono riprese dal press book del film). Quello che manca alla cronaca è cosa è successo prima, nei sette giorni che vanno dall’arresto alla morte, Stefano Cucchi viene a contatto con 140 persone fra carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri. E in pochi, pochissimi, intuiscono il dramma che sta vivendo. Questo fa il film, ci racconta i gesti che ha compiuto Stefano prima dell’arresto, durante la detenzione e in ospedale. E ci racconta anche il percorso umano della famiglia, padre e madre sconvolti e di Ilaria Cucchi, la sorella. Cremonini sostiene che Sulla mia pelle sceglie di opporsi alla più grande delle ingiustizie: il silenzio. Perciò restituisce parola e corpo a Stefano a Cucchi, e lo fa con un attore che riesce a dare il meglio di sé, probabilmente la sua migliore interpretazione della carriera: la trasformazione di Alessandro Borghi è clamorosa, sia nel fisico che soprattutto nella voce, uno spezzone di registrazione audio mostrata nei titoli di coda ci fa capire il lavoro di mimesi che l’attore è stato in grado di compiere. Il film non mira all’indignazione contro i carabinieri, evidentemente colpevoli della sua morte, ma sceglie una distanza necessaria a un racconto così vivo nella memoria: ad esempio non ci fa vedere la terribile scena del pestaggio ma ce ne mostra evidentemente gli effetti. Ci mostra la paura di Stefano nel denunciare il crimine subito, ci mostra i problemi di Stefano con la droga e non ne fa il santino che in molti magari avrebbero voluto vedere. Nello scrivere la sceneggiatura del film Cremonini e Lisa Nur Sultan scelgono perciò una strada difficilissima ma riescono a uscirne con un film pieno di umanità che merita sicuramente un pubblico in grado di apprezzarlo.
Les tombeaux sans noms di Rithy Panh invece apre Le Giornate degli autori. Il regista cambogiano continua il suo percorso percorso di ricerca personale e spirituale. Dopo S21 – La macchina di morte dei Khmer Rossi, L’immagine mancante ed Exile, Phan continua a narrare le conseguenze del regime dei Khmer rossi. Ricordiamo che Rithy Panh ha subito la deportazione nel 1975, ed è stato costretto ai lavori forzati nei campi, molti dei suoi famigliari e amici non sono sopravvissuti al genocidio, da trent’anni elabora e riflette su quanto accaduto in patria e cerca di restituircelo con i suoi lavori, quest’ultimo aggiunge un altro tassello alla Storia per immagini del suo paese. Mentre i film precedenti raccontavano i meccanismi del crimine. Les tombeaux sans noms è l’espressione del bisogno di ritrovare la pace. Il film racconta di uomini che da adolescenti hanno perso quasi tutta la famiglia e ora vanno alla ricerca delle tombe dei familiari. Li trovano o non li trovano non è importante, un dente, un teschio sepolti sotto un albero o sotto un terreno d’argilla permette di ritrovarli? Il film vaga, ondeggia in questa ricerca che diventa presto puramente spirituale. È un film pieno di domande: cosa trova? E soprattutto, cosa sta cercando? Alberi spettrali? Villaggi ormai irriconoscibili? Testimoni tanto spaventati da non voler parlare? Il film viaggia perciò tra queste lande desolate, risaie e villaggi sperduti, ci fa immergere in questi racconti terrificanti (morti di fame, stupri, matrimoni imposti, omicidi) ma si fa presto un lavoro quasi religioso. Un film che va ben oltre la storia di un singolo Paese e va ad assumere una dimensione universale.
da Venezia, Claudio Casazza