Normalmente i documentari sulla carriera di un regista sono fatti da altri e, il più delle volte, postumi. Agnès Varda, che già si era raccontata nell’autobiografico Les plages d’Agnes (2008) e aveva dedicato tre film omaggio al marito Jacques Demy, ha voluto confermare la propria unicità confezionandoselo da sola. A 90 anni d’età, compiuti lo scorso maggio, la grande regista francese parte dallo spunto di una masterclass per spaziare attraverso una filmografia sterminata. Si parte dal poco conosciuto cortometraggio Uncle Yanco del 1967, l’incontro sorpreso e sorprendente con Yanco, zio americano che vive su una barca nei dintorni di San Francisco. Persona fuori dagli schemi per un piccolo film altrettanto indefinibile, fatto di ripetizioni e possibilità. Un lavoro che contiene, forse come pochi altri, le caratteristiche salienti del cinema dell’autrice, fatto di libertà e forma. Subito Varda spiega le parole chiave: “ispirazione, creazione e collaborazione”. Da qui sottolinea gli aspetti personali e collettivi di ogni sua scelta e mostrando con esempi concreti come ogni idea si è concretizzata in immagini cinematografiche. Si passa quindi a Cleo dalle 5 alle 7 (1961), secondo lungometrggio, che la rese celebre. Senza seguire criteri cronologici, ma procedendo per associazioni e similitudini, la cineasta va avanti e indietro tra le sue pellicole e, verso metà film, le sue fotografie e le installazioni. Lungometraggi, documentari e corti sono parte di un discorso che fila come un continuo, in una cavalcata inarrestabile che omaggia Demy e i tanti collaboratori e amici di una vita. Tra questi compare in carne e ossa, in piena campagna, Sandrine Bonnaire che giovanissima interpretò la ribelle e autodistruttiva Mona in Senza tetto né legge (Leone d’oro a Venezia nel 1985). Nel discorso entra anche Nurith Aviv, direttrice della fotografia di Documenteur, Mur murs e Jane B. pour Agnès V.. “Sono molto interessata alla gente” ripete, mentre spiega i film e come li ha fatti.
Varda par Agnès è una vera e propria lezione sul suo cinema, con umorismo, trovate e soluzioni registiche magistrali. Da una parte sembra un’opera realizzata con il pilota automatico, tanto Varda è rodata nel narrarsi e nel lasciarsi andare, dall’altra ci sono misura e una regia ricca e preziosa. Senza mai esagerare, ci sono il tono simpatico e ironico che la contraddistinguono e pure l’aspetto politico e collettivo sempre presenti: l’impegno con leggerezza, il personale con i sentimenti e la bellezza (Le bonheur – Il verde prato dell’amore del 1964 che torna a più riprese). La regista si sofferma sulle esperienze rivoluzionarie e libertarie degli anni ’60, sul femminismo dei ’70, più volte orgogliosamente rivendicato, e sulle possibilità aperte nei 2000 dal digitale. Per Varda le nuove soluzioni tecniche permettono di avvicinarsi ancora di più alla realtà, come nel meraviglioso Les glaneurs et la glaneuse (2001) dove gli sprechi di cibo e il recupero sono uno dei tanti temi. E passando per le “capanne” e la Patatutopia si arriva all’ultimo lavoro, Visages villages (2017) con il fotografo JR. Un grande atto d’amore verso il cinema e un tributo alle tante persone incrociate o che l’hanno influenzata (definisce la regista Shirley Clarke la sua gemella). Un film doveroso per chi conosce Agnès Varda e ancora più come introduzione una carriera impareggiabile lunga quasi 70 anni.
Nicola Falcinella