Diciamo subito che il titolo italiano è sbagliato e tendenzioso. Sbagliato perché piuttosto ordinario, ambiguo e difficile da ricordare; tendenzioso perché di parte, sottilmente ma senz’altro capace di direzionare il giudizio critico dello spettatore. Sarà inutile dirlo, ma le recensioni che si leggono in rete, così a campionatura, sono tutte premurose di spiegarci da che lato della barricata è meglio stare quando si parla di antisemitismo: “Tutti abbiamo davanti i danni dei deliri negazionisti” (Valentina Di Nino su today.it). Oppure: “L’Europa ha dentro di sé i germi reazionari del negazionismo e dell’antisemitismo” (Fabio Fulfaro, sentieriselvaggi.it). E su quali dati statistici e/o analisi sociologiche si basa l’assunto? Dov’è finita la capacità argomentativa? È come se i nostri bravi recensori “di cassetta”, sempre pronti a schierarsi aprioristicamente per il Bene, avessero sentito la necessità di erigere una barriera protettiva tra sé, il film e le idee che qualcuno potrebbe erroneamente attribuire al film stesso o peggio agli articolisti. È un film sull’antisemitismo, quindi ci sono i buoni e i cattivi e la morale non è che una lezione di storia dell’ovvio cadenzata dai ritmi della narrazione cinematografica.
Invece Philippe Le Guay, il bravo regista francese autore de Le donne del 6° piano (2010) e Molière in bicicletta (2013), parte da un canovaccio che con l’antisemitismo c’entra relativamente; lo tange, l’antisemitismo, ci gioca con ribalderia provocatrice e mai prevaricatrice, ma in buona sostanza lo lascia per strada. Non è quello ad interessargli. L’homme de la cave, questo il titolo originale, cioè l’uomo della cantina: metafora dentro la metafora, perché la cantina è l’inconscio, lo spazio innominabile dove si dipartono le più inconfessabili narrazioni dell’anima. Tutto scaturisce e finisce lì dentro, nello scantinato, nel buio, tra i topi: un mite architetto di origine ebraica (Jérémie Renier) vende la propria cantina a un professore di storia (François Cluzet). Un signore gentile e posato, che paga subito e sull’unghia nonostante abbia perso da poco il lavoro. Il problema è che l’insegnante è un negazionista, ma questo lo si scopre dopo, e proprio a causa del licenziamento indotto per motivi ideologici, ha trasformato la cantina nella propria abitazione. In fin dei conti non fa del male a nessuno: è gentile con i vicini, trascorre le giornate al computer a scrivere su blog di revisionisti dell’Olocausto che, come ci ricorda uno dei personaggi del film, hanno un seguito di poche centinaia di persone. Però sta lì, in cantina, a ricordarci che c’è. L’architetto e sua moglie (Bérénice Bejo) non riescono a elaborare la colpa di aver venduto un immobile a un negazionista. Ecco che la coppia entra in crisi: cominciano le ripicche, i silenzi complicati dalla vergogna, il detto e non detto che inesorabilmente incrina il piano traballante su cui si regge il matrimonio. Questa insofferenza è naturalmente biunivoca: non soltanto i coniugi si feriscono l’uno con l’altra, ma fanno fronte comune, coinvolgendo pure figli e fratello di lui, nel perseguitare il professore negazionista che, squattrinato e vituperato, finisce per diventare vittima sacrificale dell’intera comunità.
Il ribaltamento di prospettiva inscenato da Le Guay, che scrive in collaborazione con Gilles Taurand e Marc Weitzmann, è da manuale: il professore rispetta le leggi, cioè ha regolarmente pagato per ottenere un immobile, ma non le rispetta nel momento in cui muta la destinazione d’uso trasformando la cantina in un appartamento. L’architetto ne è consapevole, ma punta in tribunale sulla richiesta sbagliata (annullamento della vendita per “incompatibilità ideologica”), finendone miseramente ma logicamente sconfitto. Come dire, il negazionismo non è reato, o se lo è non basta ridimensionare la portata dell’Olocausto per annullare una transazione di vendita. A Le Guay non interessano troppo le quisquilie legali; quelle ci sono e insaporiscono la vicenda, ne fanno da interessante contorno che d’altronde è necessario per tirare le fila del discorso: la sua pragmatica è però tutta rivolta alla testa delle persone, alla vita interiore, al microcosmo (la famiglia borghese e i suoi valori) che incontra il macrocosmo dei valori ideologici e democratici.
Qual è il limite del pluralismo? Come sosteneva Karl Popper nel suo celebre paradosso della tolleranza, possiamo permetterci il lusso di essere tolleranti nei confronti di chi è intollerante? Ma chi è davvero intollerante in questo contesto? In realtà il negazionismo è soltanto un pretesto per parlare di tantissime altre sottotrame, piccoli spazi incidentali che scomodano la psicologia per sfociare sfacciatamente in una generale rimessa in discussione dei valori occidentali. Tema senz’altro attuale, tanto che, probabile casualità, proprio pochissimi anni addietro Garzanti decise di rieditare un testo minore ma assai profondo di Pier Paolo Pasolini: Il fascismo degli antifascisti, scritto tra il 1962 e il 1975, in cui il grande intellettuale puntava il dito su un nuovo tipo di fascismo: quello del conformismo, della standardizzazione ideologica, cioè di un antifascismo tutto di facciata e non di sostanza che trovava nella società del consumo e della produzione di omologanti modelli culturali il massimo della sua espressione. Siamo più o meno dalle parti di Critica alla tolleranza (1965) di Herbert Marcuse, un pamphlet molto noto ma oggigiorno meno conosciuto di quanto ci si aspetterebbe, che muove da presupposti alquanto similari: sono proprio i tolleranti gli alfieri privilegiati dei processi sociali, economici e politici che portano all’intolleranza. Da questo punto di vista, Le Guay, benché tale proposito non fosse forse nelle sue intenzioni, è chiarissimo e quasi pedagogico: i tolleranti che egli tratteggia, scavando nelle pulsazioni recondite, negli anfratti famigliari, nell’ingenuità del loro pensiero fondamentalmente immaturo (in altre parole: nella banalità del bene e del fare il bene forzatamente) finiscono per trasformarsi in maschere distorte e infantili. Fanno male, dicono peggio, pensano attraverso l’errore.
È proprio nella presunzione alla tolleranza, nell’arroganza di agire secondo coscienza e a dispetto di tutto, che si annida il morbo pestifero dell’ottusità e della regressione.
Marco Marchetti
Un’ombra sulla verità
Titolo originale: L’homme de la cave. Regia: Philippe Le Guay. Sceneggiatura: Philippe Le Guay, Gilles Taurand, Marc Weitzmann Fotografia: Guillaume Deffontaines. Musica: Bruno Coullais. Interpreti: François Cluzet, Jérémie Renier, Bérénice Bejo. Origine: Francia. Anno: 2021. Durata: 114′.