Il recente arrivo nelle sale italiane dell’interessante e curioso L’ultima luna di settembre di Amarsaikhan Baljinnyam è l’occasione per fare una panoramica sul cinema della Mongolia. Un Paese remoto in tutti i sensi, anche dal punto di vista cinematografico.
Il cinema a Ulaanbaatar comparve in età sovietica e rimase per decenni nell’orbita dell’Urss. Da oltre confine arrivavano i film, i tecnici e le apparecchiature, per approdare all’apertura delle prime sale stabili e nel 1935 degli studi Mongol Kino. La produzione, soprattutto di documentari, resta dentro i confini nazionali e segue le vicissitudini politiche del Paese. Con il disfacimento del blocco sovietico il settore attraversò una crisi negli anni ‘80 e ‘90 che portò quasi a un azzeramento dell’attività. Una svolta per invertire la rotta fu rappresentata dai soggiorni del regista belga Peter Brosens – poi affermatosi con i film firmati con Jessica Woodworth Khadak (2006), La quinta stagione (2012) e Un re allo sbando – King of the Belgians (2016). Brosens realizzò la trilogia di documentari City of the Steppes (1994), State of Dogs (1998) in collaborazione con Turmunkh Dorjkhandyn e Poets of Magnolia (1999) con la coregia di Byamba Sakhya. Quest’ultimo avrebbe poi continuato da solo, realizzando il documentario Khusel Shunal (2010) e i lungometraggi di finzione Remote Control (2013) e Bedridden (2020).
Il film mongolo più noto in Italia è probabilmente La storia del cammello che piange, nominato al premio Oscar 2005 come miglior documentario, realizzato da Byambasuren Davaa insieme al fiorentino Luigi Falorni, suo compagno di studi in Germania. Davaa è anche la regista con all’attivo la filmografia più corposa, comprendente Il cane giallo della Mongolia (2005), I due cavalli di Gengis Khan (2009) e Veins of the World (2020).
Semplicità e un tocco di mistero sono gli elementi base dell’opera d’esordio, ambientata tra i nomadi del deserto del Gobi. A primavera una famiglia di pastori assiste i propri cammelli che partoriscono. Dopo un lungo e difficile travaglio, una madre dà alla luce un rarissimo cucciolo bianco e rifiuta di allattarlo nonostante i tentativi dei proprietari. Quando tutti gli sforzi sembrano vani, decidono di inviare i loro bambini a chiamare un suonatore di uno strumento tradizionale, un violino con due sole corde fatte con crini di cavallo. Sarà il suono melodioso a commuovere la cammella e a farle riscoprire l’istinto materno. Documentario d’osservazione e narrativo si uniscono con l’aggiunta di un tocco poetico nel rispetto di una comunità che porta la propria vita e le proprie tradizioni.
Il confine tra documentario e finzione è molto labile anche ne Il cane giallo della Mongolia, che vede al centro un cane, due piccoli bambini nomadi e un’antica leggenda. Una favola delle steppe, sospesa tra realtà e mito, ambientato in un mondo che rispetta ritmi e abitudini antichi, in territori che allo sguardo occidentale paiono inospitali. Una famiglia di allevatori nomadi si muove seguendo il ritmo delle stagioni con i suoi carri, il suo bestiame e le sue yurte, le grandi tende che fanno da casa.
Il cane giallo è una favola una storia semplice e commuovente, che ha bisogno di prendersi i suoi tempi per trasportarci in compagnia di una famiglia nomade e della piccola Nansal, sei anni, del fratellino e del suo cane trovato in una caverna. Un film essenziale che inizia placido e lento con la bella stagione. Padre e madre accudiscono il bestiame in questo pascolo remoto, il figlio piccolo non è ancora autonomo, mentre la bimba cerca di avventurarsi alla scoperta di quel che la circonda. I giorni sembrano uguali uno all’altro e lo sguardo della regista, partecipe, curioso e distaccato insieme, mai invasivo e mai supponente, riesce a renderlo molto bene. A salvare lo spettatore da un inizio di sopore provvede l’intraprendente Nansal: nelle sue scorribande lontano dall’occhio dei genitori trova un cagnolino nascosto in una grotta e gli si affeziona immediatamente. Lo conduce alla yurta, lo chiama Macchia e desidera tenerlo nonostante il volere contrario del padre, preoccupato che il cane attragga i lupi verso il gregge di pecore. Per il resto dell’estate la bimba ha nel nuovo venuto un compagno di giochi, ma con l’arrivo dell’autunno e il bisogno di lasciare i pascoli alle quote più alte, il padre costringe la piccola Nansal ad abbandonare, tra i pianti, il cane sul luogo. Il viaggio all’indietro per la carovana e il grande gregge è lungo e insidioso. E per il cane, seguendo la leggenda raccontata da un’anziana, capiterà una nuova occasione per trasformarsi da rifiutato in salvatore. Come per il cammello neonato che piangeva perché allontanato dalla madre, la natura rimedia (grazie a un intervento del misterioso o del magico) a un iniziale rifiuto. Non è detto che chi pare fuori dal consueto procedere delle cose debba restare escluso, giacché, se non ci pensa l’uomo, è la natura a reintegrarlo, sotto lo sguardo paziente della regista.
Il suo terzo lavoro è I due cavalli di Gengis Khan, viaggio musicale attraverso la Mongolia seguendo la cantante Una che va alla ricerca delle origini del canto del titolo, uno dei più antichi della tradizione popolare.
Con il toccante Veins of the World, presentato al Fescaaal di Milano nel 2021, Davaa conferma il proprio talento nel rendere universali vicende ambientate nella sua terra senza perderne le specificità e senza accondiscendere a un facile esotismo. Amra è un ragazzino proveniente da una famiglia di pastori nomadi che sogna di partecipare a Mongolia’s Got Talent. Intanto l’avanzare di una società mineraria straniera che estrae oro devasta i pascoli, devia il corso del fiume e minaccia la comunità. Il padre Erdene vuole resistere il più possibile e pretende garanzie dai nuovi venuti, mentre la madre Zaya è rassegnata ad andarsene per non perdere tutto. Quando il marito muore in un incidente, la moglie diventa combattiva e non si vuole arrendere, mentre Amra vuole in qualche modo prendere il posto del padre. Davaa scaglia la poesia e la tenacia innocente contro l’avidità degli uomini, mentre i bellissimi paesaggi mongoli sono distrutti dall’avanzare delle miniere che stravolgono tutto. Il titolo deriva dalla canzone tradizionale che Amra canta.
È cinese, ma opera prevalentemente in Mongolia, Quan’an Wang, cineasta noto e apprezzato per Il matrimonio di Tuya, che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 2007, e Ondog (2019), presentato sempre alla Berlinale. Da menzionare il film storico A Pearl In The Forest (2008) di Agvaantserengiin Enkhtaivan, che aveva già recitato il ruolo di Genghis Khan in Under The Eternal Blue Sky di Begziin Baljinnyam.
Ha ricevuto il riconoscimento come miglior attore al Torino Film Festival 2012 Huntun Batu per The First Aggregate di Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag. Due registi che in seguito hanno realizzato K (2015), adattamento de Il castello di Franz Kafka.
Presentata al Far East Festival di Udine 2023 è la commedia The Sales Girl del prolifico Janchivdorj Sengedorj, i cui lavori hanno avuto scarsa circolazione da noi. È invece uscita nelle sale la favola con coproduzione inglese La principessa e l’aquila (2016) di Otto Bell, entrato in shortlist nella corsa all’Oscar per il miglior documentario: la storia di una giovane che vuole diventare addestratrice di rapaci, in un film che cerca di valorizzare la bellezza dei paesaggi.
Ultimo in ordine di tempo sulla scena internazionale l’esordio If Only I Could Hibernate di Zoljargal Purevdash, presentato a Cannes 2023 nella sezione Un certain regard.
Si giunge a L’ultima luna di settembre, tratto da un racconto di T. Bum-Ėrdėnė, esordio di Baljinnyam che è anche interprete protagonista. Tulgaa è un uomo di mezz’età che vive in città (dove dice di essere diventato direttore di un hotel a cinque stelle) ed è richiamato al villaggio, al capezzale del padre morente. È ormai la fine della stagione del raccolto, Tulgaa intende fermarsi pochi giorni, giusto il tempo della sepoltura e degli adempimenti, poi accetta di prendere il posto del padre nello sfalcio dei prati per conto del direttore della scuola e la sua permanenza si prolunga. Nel villaggio remoto di yurte, dove non c’è la linea telefonica. si imbatte nel ragazzino Tutuulei che si presenta ostile nei suoi confronti e ostenta un comportamento da adulto, sfidandolo a ripetizione. Tra i due si crea piano piano un rapporto, che nel piccolo compensa l’assenza paterna (e la lontananza della madre) e nell’adulto risveglia un desiderio di paternità già suggerito nel prologo e mette in dubbio la scelta di andarsene. Tra favola e realismo, è un film simpatico sullo scontro tra modernità invadente e tradizione immutabile in un luogo remoto, con bei paesaggi e buoni sentimenti, forse con un tocco di esotismo per il pubblico occidentale, ma con pochissima musica e con il ritmo lento delle steppe.
Nicola Falcinella