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Under the Skin

under locaForme. Misteriose, stralunate, geometricamente perfette, di nuovo distorte, ancora alla ricerca di una identità fisiologica. Immagini che tremolano, che si intersecano l’una dentro l’altra, strutture circolari, forse ovoidali, che si toccano, si intrecciano, diventano qualcosa di incomprensibile per poi sussumere a concetti più generali e astratti. Visioni metonimiche che aprono il film: dal particolare all’universale, e dal globale al dettaglio. Una cellula uovo, forata da uno spermatozoo che galleggia nel nulla siderale dello spazio. Pianeti che gravitano in orbite uterine. Un embrione. Un occhio (in)umano. Gemiti sessuali, parole elencate come da un computer. Associazioni ingarbugliate di significato. Under the Skin comincia come una sinfonia astratta, cose gettate nel buio che lentamente si dipanano in pensieri meglio architettati. Infine la forma definibile: una luce, quella di una motocicletta guidata da un individuo spigoloso. Un uomo si immerge nell’oscurità di un fossato, afferra una bellissima ragazza, morta, la conduce con sé in un luogo monocromo come un’opera di Yves Klein. Bianco. Nero. Ancora luce, nessun arredamento. Un’astronave aliena? Il ventre di un altro pianeta? Un secondo corpo di donna, senza vestiti, che tocca, spoglia ed esplora il cadavere della giovane. Le due si assomigliano molto, sono quasi identiche. Che siano la stessa persona? O è una delle due che cerca di rubare l’identità all’altra?Under skin 2

In una Scozia ventosa, cielo grigio e nuvole basse sull’orizzonte, una ragazza bellissima (Scarlett Johansson) batte le strade delle città con un furgone. Chiede informazioni, si è persa. I ragazzi che incontra sono più che felici di aiutarla. La giovane si offre di dare loro un passaggio, a questo punto comincia un sottile gioco di seduzione: sguardi, ammiccamenti, carezze e promesse. Ma è soltanto una trappola, perché c’è qualcosa di pericoloso che si agita in questa creatura troppo bella per concedersi al comune cittadino: una forza oscura, che non appartiene a questo mondo, e che la costringe a nutrirsi degli uomini come gli uomini si nutrono delle bestie. Ancora nero, appartamenti neri, antri neri, caseggiati dimenticati tutti pieni di una tenebra strisciante e onnicomprensiva: la tana del ragno, la cucina dell’aliena. Qui la bella cacciatrice di autostoppisti conclude il suo macabro rituale di accoppiamento, si spoglia, attira a sé la vittima che però, anziché toccarla e (com)penetrarla, cade in una piscina ricolma di un liquido simile a petrolio. Affonda nel cuore del nulla, le energie le vengono meno, gli arti si irrigidiscono e si tingono di un colore funereo. Nero. Azzurro. Blu. Spazi enormi senza vita. Asettici come le forme di questa mantide terribile.

under scarlettJonathan Glazer, regista britannico con pochissimi film all’attivo, tra cui Birth – Io sono Sean (2004), torna a dirigere una pellicola d’atmosfera, cupa, ombratile, piena di ellissi e cose non dette. Una pellicola tutta giocata sui silenzi, sulle voragini logiche, sulle ripetizioni di quanto già sappiamo, con l’unica differenza che per ogni ripetizione, per ogni elemento che viene ribadito, sottolineato, decisamente rimarcato, ecco che un piccolo stralcio di narrazione, un indizio, una speranza, si aggiunge all’enigma di partenza, rendendolo più comprensibile, pulito, in qualche modo perfettamente coerente con i propri assunti. Come il Bolero di Ravel, sempre uguale a se stesso ma sempre diverso, con uno strumento che si accoda, una variazione in divenire, nuovi suoni che si addizionano ai precedenti. Under the Skin è minimale nella sua sperimentazione e sperimentale nel suo disarmante minimalismo; è la storia di un’aliena troppo aliena per essere umana, e troppo umana per restare aliena; è il dramma di una creatura di un altrove non specificato che, calatasi nella pelle di una donna, finisce per assorbire sensazioni, desideri e pensieri di quella stessa umanità a cui dovrebbe dare la caccia. Glazer trae il suo film dall’omonimo romanzo di Michel Faber, ma ciò che nello scrittore olandese era esplicito, esasperato, per qualcuno addirittura satirico, qui viene trasformato nella versione modernissima de L’uomo che cadde sulla terra (1976), stesse sonorità barbuglianti, stesse facce stravolte, stesse mutazioni di corporeità, violini che si schiantano tra i flutti di una scogliera scozzese, rumori di fondo, brusii di ambiente che cozzano l’uno su e contro l’altro. La diva Scarlett è messa a nudo, completamente e crudamente, per l’occhio guardone della macchina da presa, e soprattutto per quello altrettanto vorace dello spettatore. Ma la sua è una bellezza asessuale, irraggiungibile, assolutamente astratta e lunare, proprio come quella di una star.
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Glazer crea un film di contrasti, che scivolano sulle superfici dei suoi corpi, puliti come astronavi aliene che gravitano nel vuoto, gracili e imperfetti come gli esoscheletri degli insetti. Eppure, nonostante la freddezza della messa in scena, rigorosa come una sala autoptica, medesima illuminazione, identica atmosfera di ieratica contemplazione, Under the Skin è un arto informicolito che pian piano si risveglia fin quasi a fare male. Merito senza dubbio del personaggio più umano del film, Adam Pearson, un elephant man senza alcun trucco, umiliato, battuto e isolato nella vita reale, che qui, come la diva, ancora più della diva, si mette a nudo, mostrandosi per ciò che è, per ciò che tutti siamo: corpi, sentimenti, desiderio, dolore. E amore.

Marco Marchetti

Under the Skin

Regia: Jonathan Glazer. Sceneggiatura: Walter Campbell, Jonathan Glazer. Soggetto: Michel Faber. Fotografia: Daniel Landin. Montaggio: Paul Watts. Musica: Mica Levi. Interpreti: Scarlett Johansson, Adam Pearson, Jeremy McWilliams, Paul Brannigan, Jessica Mance. Origine: UK, USA. Durata: 108 min.

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