È un film freddo e spietato il secondo lungometraggio di Sebastiano Riso, Una famiglia, presentato in concorso alla 74ª edizione del Festival di Venezia. Così come piuttosto fredda è stata anche l’accoglienza in sala da parte del pubblico del Lido. Sì perché la pellicola, che racconta il dramma del traffico di neonati nel nostro paese attraverso la storia di coppia di Maria (Micaela Ramazzotti) e Vincenzo (Patrick Bruel) è un’opera senz’altro coraggiosa ma non sembra convincere appieno. È coraggiosa nella rappresentazione realistica, quasi documentaristica, delle modalità di sfruttamento del corpo di Maria da parte di Vincenzo, costretta dal suo partner/aguzzino a gravidanze forzate che andranno ad alimentare il mercato nero dei neonati. Il corpo di Maria diviene così una fonte di reddito, un piccolo tassello di quell’economia nera che così bene, in Italia, si integra con i circuiti dell’economia legale. È forse questo che ci vuole dire Riso con quella splendida panoramica che mette in relazione l’appartamento della coppia dove si sta consumando l’ennesima violenza nei confronti di Maria, con il mercato che sorge proprio sotto la loro casa, mentre le urla della donna si perdono e si smorzano nel trambusto della vita quotidiana. Come a dire: “tutto questo accade sotto i nostri occhi, nell’indifferenza più totale”. In quella sola panoramica sta tutta la forza di denuncia del film che Sebastiano Riso tanto rivendica.
La sceneggiatura di Una famiglia è nata attingendo dal serbatoio di storie vere e tragiche che il nostro paese offre sul tema del mercimonio di neonati, fatti reali che il regista italiano ha poi fatto convergere all’interno di una struttura narrativa che prevede la progressiva presa di coscienza da parte della protagonista della violenza da lei subita e della conseguente voglia di ribellarsi. Ed è proprio qui che la pellicola pecca di superficialità, non riuscendo a penetrare all’interno di quei meccanismi psicologici che la vicenda presuppone complessi e che regolano la condotta di Maria. Una condotta condizionata da un rapporto morboso che la donna intrattiene con Vincenzo, e che la porta a sottomettersi remissivamente alle violenze del suo carnefice, scegliendo di chiudersi all’interno di una prigione esistenziale che lei vede come unico rifugio possibile. In Michela si rende evidente una fragilità di fondo di cui però il film non si preoccupa di specificare le ragioni. Così come non si preoccupa di specificare le ragioni del comportamento di Vincenzo, tutto proteso a proseguire nei suoi traffici illeciti sebbene non sembra che ci sia nulla che gli impedisca di cambiare strada. Certamente non sono sufficienti i pochi e timidi accenni a un passato oscuro per dare profondità alle vite dei personaggi e per spiegare le intricate dinamiche interiori che dominano il rapporto di coppia dei due protagonisti.
Questo forse spiega la perplessità del pubblico di fronte a un film che vorrebbe portare lo spettatore dentro la scena, fino a sfiorare l’epidermide degli attori, senza però riuscire mai ad andare oltre la superficie delle cose, in profondità, sul terreno delle verità psicologiche ed esistenziali. Alla fine, ciò che rimane, è un senso di profonda insoddisfazione.
Michele Conchedda
Una famiglia
Regia: Sebastiano Riso. Sceneggiatura: Andrea Cedrola, Stefano Grasso, Sebastiano Riso. Fotografia: Piero Basso. Interpreti: Micaela Ramazzotti, Patrick Bruel, Pippo Delbono, Fortunato Cerlino, Marco Leonardi, Matilda De Angelis, Ennio Fantastichini, Sebastian Gimelli Morosini, Alessandro Riceci. Origine: Italia/Francia, 2017. Durata: 119′.