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Una donna chiamata Maixabel

Ho ripensato lungamente, dopo aver visto Una donna chiamata Maixabel, al concetto ebraico di riparazione come perfezionamento del mondo che – afferma Corine Pelluchon nel suo Réparons le monde – non significa suturare ferite, incollare pezzi frantumati, ma sentirsi responsabili in tutte le attività quotidiane partendo dalla vulnerabilità nostra e di chi è intorno a noi; perché solo la percezione della vulnerabilità ci permette di comprendere quanto bisogno abbiamo degli altri. In altre parole, la fragilità come possibilità di essere colpiti ci renderebbe maggiormente responsabili del contesto in cui viviamo e ci indurrebbe a pratiche riparative, per mitigare, e magari vincere, la sensazione di impotenza di fronte alle fratture del mondo e, in prima istanza, a quelle personali, di origine endogena o esogena.

Icíar Bollaín, regista e sceneggiatrice che nella scelta delle storie da raccontare ha sempre privilegiato tematiche sociali (Ti do i miei occhi, También la lluvia, El olivo) con Maixabel non solo costruisce l’ennesimo convincente personaggio femminile del suo cinema, ma apre coraggiosamente una delle pagine più drammatiche del suo paese – la lotta armata post-franchista dell’organizzazione terroristica ETA – accettando il rischio di cozzare con resistenze che non riguardano soltanto la Spagna, ma anche altri paesi che ancora non hanno del tutto rielaborato traumi collettivi (l’Italia ad esempio). Una donna chiamata Maixabel mette di fronte, in uno spazio privato e dialogico, mediato e negoziato, vittime e carnefici, nel contesto di un programma sperimentale di giustizia riparativa.

Siamo nel 2000, Juan Maria Jáuregui, ex governatore civile di Gipuzkoa, nonché comunista e affiliato in gioventù all’ETA, viene freddato da due terroristi mentre, senza scorta, si intrattiene con un amico in un pub di Tolosa: è un’esecuzione a volto scoperto, pianificata, che sorprende la vittima alle spalle, mentre un terzo complice attende in auto. La notizia arriva improvvisa e coglie la moglie Maixabel Lasa (Blanca Portillo, premio Goya come miglior interprete femminile) mentre è ancora fresco il ricordo dei festeggiamenti per i venticinque anni di matrimonio; la figlia Maria (María Cerezuela, Goya alla miglior attrice emergente) invece è in vacanza con le amiche con cui ha appena festeggiato i suoi diciannove anni. Il dramma umano per la perdita improvvisa, ma non del tutto inaspettata, scuote tutta la prima parte del film, fino alla cattura nel 2004 di Ibon e Luis, due dei tre esecutori, e al processo seguente, dove gli esponenti del gruppo armato disconoscono l’autorità del tribunale spagnolo.
La sceneggiatura di Bollaín e Isa Campo cambia a questo punto (ma solo in apparenza) il suo centro gravitazionale, nel momento in cui Ibon e Luis (straordinari Luis Tosar, ma non è una novità, e Urko Olazabal, altro premio Goya come attore non protagonista) finiscono in un carcere dove sono detenuti diversi militanti dell’ETA, alcuni dei quali hanno preso le distanze dai vertici. Quando una decina di anni dopo viene proposto ai detenuti di stabilire un contatto con i familiari delle vittime, Luis, tormentato dai rimorsi, decide di incontrare Maixabel, che, in qualità di presidente della Oficina de Atencion a Las Victimas del Terrorismo del governo basco, è diventata un volto noto e personaggio pubblico tanto scomodo da dover accettare la presenza di due guardie del corpo.

Con lucida intelligenza la regista riesce nell’impresa di definire senza didascalismi tempi e modi della giustizia riparativa. Gli scambi, dapprima timidi poi via via più intensi, tra reo e vittima sono svuotati della retorica buonista del perdono, evidenziando le sfaccettature complesse di psicologie deviate dal dolore: da una parte il vuoto incolmabile nella vita di Maixabel (e della figlia, inizialmente contraria a qualsiasi dialogo), dall’altra il pentimento che assume le sfumature complesse di un percorso di rilettura critica della propria militanza. Bollaín lavora con secchi campi-controcampi nei momenti alti del confronto tra Maixabel e Luis in carcere e, successivamente, con Ibon, durante uno dei suoi permessi d’uscita temporanea; lascia fluire gli scambi come non fossero scritti in sceneggiatura, perché l’emozione cresca con naturalezza e la distanza che rimane (e ci mancherebbe altro) tra la donna e coloro che hanno cambiato il corso della sua vita, non definisca più il tempo stagnante di un eterno presente. Una e gli altri sono coincidenti in un segmento di storia personale che ne ha definito irreparabilmente le traiettorie e, di conseguenza, coincidenti nell’affresco più ampio della stroria collettiva, costellata di incubi e processi elaborativi ben lungi dal trovare soluzione.

Gli ultimi fuochi dell’ETA, fino allo scioglimento nel 2018, sono più che uno sfondo politico alla vicenda. Dietro la dorsale portante del suo film, Bollaín lascia intravedere il conflitto tutto interno all’organizzazione, la furia di un dibattito da tempo aperto sul merito della lotta armata, quindi delle strategie e degli obiettivi (torna alla memoria Ogro di Pontecorvo); compaiono negli spazi del carcere, come inquieti esuli in patria, i numerosi fuoriusciti, i pentiti (che non significa collaboratori di giustizia), uomini e donne la cui identità politica si è confusa con i sensi di colpa, con l’incapacità di decifrare la verità, con i tradimenti ideologici. Sono tutt’altro che personaggi di contorno, ma una materia psicologica in fermento, volti struggenti che nascondono sofferenze in cerca di riparo.
Il riparo dunque: come luogo di protezione ma anche azione arginativa; riparare la catastrofe di un tempo perduto nella violenza e che ancora si riverbera nell’ottusità di chi non ha compreso. Ed è agghiacciante ogni ritorno di Ibon verso casa, sottomesso agli sguardi giudicanti di chi lo considera traditore, ma che la guerra l’ha sempre guardata dal balcone di casa, fedele ad una forma di lotta identitaria fatta di proclami gridati, strumentalizzazioni, mistificazioni, e la cui sostanza si è perduta nei decenni, quando il nemico non era più il dittatore Franco.

Alessandro Leone

Una donna chiamata Maixabel

Regia: Icíar Bollaín. Sceneggiatura: Isa Campo, Icíar Bollaín. Fotografia: Javier Agirre. Montaggio: Nacho Ruiz Capillas. Musiche: Alberto Iglesias. Interpreti: Blanca Portillo, Luis Tosar, Urko Olazabal, María Cerezuela, Tamara Canosa, María Jesús Hoyos, Arantxa Aranguren, Bruno Sevilla. Origine: Spagna, 2021. Durata: 115′.

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