Christian (Franz Rogowski) è stato da poco assunto come magazziniere in un importante centro commerciale della Germania dell’Est post-riunificazione, situato a ridosso di un grande nodo autostradale. Lavora soprattutto di notte, quando i clienti se ne sono già andati, scaricando e caricando prodotti sugli imponenti scaffali della dispensa. Christian è un ragazzo taciturno, con un passato torbido alle spalle, e che tuttavia ha deciso di cambiare condotta nonostante le vecchie compagnie cerchino di risucchiarlo nel vortice delle disordinate abitudini del passato. Ad accompagnarlo in questo nuovo capitolo della sua vita c’è il collega Bruno (Peter Kurth), il quale oltre a insegnargli il lavoro sembra essere riuscito a calarsi nel disagio esistenziale che pervade i silenzi del giovane, e benché possa intuire solo in parte l’origine di suoi malesseri, ne ha ben compreso la portata dolorosa offrendosi, per quanto gli è possibile, di sostenerlo umanamente, prima ancora che professionalmente. Sul lavoro Christian conosce Marion (Sandra Hüller), responsabile del reparto dolci, una donna sposata e altrettanto insoddisfatta del proprio destino, con la quale stabilisce un rapporto di simpatia e di reciproca attrazione. Sono molti i film che hanno trattato l’argomento del disagio che affligge la categoria lavorativa subalterna: alcuni di questi, come La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, hanno cercato di focalizzare l’attenzione sulla tematica dello sfruttamento e del conseguente desiderio di emancipazione sfociante nell’ideologia della lotta sociale; altri, come Il posto di Ermanno Olmi, senza proclami e con straordinaria intimità e capacità introspettiva, ma anche con amara rassegnazione, hanno inteso l’ingresso nel mondo del lavoro come una sorta di rito di passaggio che conduce alla fine dell’innocenza e all’inizio di un lento itinerario a tappe che accompagna inesorabilmente verso la morte, individuale e sociale; altri ancora, come Fantozzi, hanno fatto della condizione dei subalterni un motivo di grossolano riso, senza per questo sminuire l’aspetto drammatico di una condizione esistenziale senza via d’uscita ma, al contrario, insistendo su taluni aspetti grotteschi e paradossali di certe condotte servili e ruffiane ai fini di accrescerne la tragicità. Un valzer tra gli scaffali del regista Thomas Stuber, film Premio della Giuria Ecumenica al Festival di Berlino dello scorso anno, tratto da un romanzo di Clemens Meyer – che in questo lungometraggio partecipa anche come co-sceneggiatore -, si distanzia da tutti questi modelli pur non rinnegandone nessuno. Stuber descrive, infatti, lo squallore quotidiano di coloro che vivono ai margini della catena di produzione gettandovi un raggio di luce, una luce che trae origine proprio dall’ordinarietà e dal senso di smarrimento cui il processo di alienazione inevitabilmente conduce, al punto che, quasi in contrapposizione all’automatizzazione dei lavoratori, i freddi e cigolanti ingranaggi delle macchine da lavoro sembrano acquisire peculiarità organiche e vitalità, innescando con gli esseri umani silenti intese ai limiti dell’affetto e della complicità. Se da un lato, allora, la cupa vita tra gli scaffali dia talvolta l’impressione di trascorrere al ritmo di un malinconico spiritual da piantagione di cotone, dall’altro è capace anche di convertirsi in un sinuoso valzer di agili muletti, i quali, se ascoltati con attenzione, possono addirittura riprodurre suoni simili al rumore del mare e del vento. La fabbrica diventa così una specie di dimensione parallela, nei cui silenzi riecheggianti di sguardi perlopiù evitati, solitudine, amicizia e amore sembrano esprimersi meglio che in altri luoghi della quotidianità, dando origine a una sovrapposizione di sentimenti ambivalenti nei quali l’umanità può finalmente guardarsi allo specchio in tutte le sue inconciliabili contraddizioni. È l’ordinarietà che si prende la propria rivincita e che si trasforma in poesia, facendosi forza della mediocrità che la contraddistingue. Tale equivocità emotiva fa di Un valzer tra gli scaffali un’opera a tratti disturbante, in quanto non offre principi di individuazione chiari cui aggrapparsi, ma all’opposto sembra compiacersi di quella stessa condizione di miseria che a tratti dà l’impressione di voler denunciare. Il tutto si riflette nel rapporto tra Christian e Marion, un rapporto che rimane inevitabilmente irrisolto, proprio perché irrisolvibile è il cromatismo delle passioni non solo della condizione operaia, ma dell’umanità in generale. Il film di Stuber non è perciò pessimista né ottimista, non è ideologico né anti-ideologico, bensì mescola speranza e rassegnazione, ideologia e qualunquismo, voglia di vivere e desiderio di morte, con straniante abilità, come a voler sottolineare che non esiste amore senza desolazione, o meglio ancora, che è proprio la desolazione la condizione necessaria affinché i valori umani emergano con maggiore autenticità, malgrado, una volta manifestatisi, siano destinati a non essere consumati o a essere traditi.
La polarità che Stuber propone – ottimamente impersonata da Franz Rogowski, la cui recitazione, oltre che la fisionomia, a metà tra Vincent Gallo e Joaquin Phoenix, ben esprime il clima di sospensione dell’ambiente operaio – restituisce la torbida ambiguità di una categoria troppo attaccata alle proprie sofferenze e alle proprie miserie per decidere veramente di distaccarsene, tanto da farne un requisito indispensabile di auto riconoscimento e di identità. «Umano troppo umano», direbbe qualcuno.
Manuel Farina
Un valzer tra gli scaffali. Regia: Thomas Stuber. Sceneggiatura: Clemens Meyer, Thomas Stuber. Fotografia: Peter Matjasko. Montaggio: Kaya Inan. Interpreti: Sandra Hüller, Franz Rogowski, Peter Kurth, Matthias Brenner Andreas Leupold. Origine: Germania, 2018. Durata: 125′.