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Un sacchetto di biglie

un-sacchetto-di-biglieUn rivolo d’acqua trasparente scorre sull’acciottolato; un bambino spensierato, come tutti i bambini dovrebbero essere, cammina per le strade di una Parigi festosa, decorata di bandiere francesi, inglesi e americane; d’un tratto, come per caso, lo sguardo del bambino viene attirato da una targa, su cui sono incise tre parole: liberté, egalité, fraternité. Siamo nell’agosto del 1944 e la capitale francese è appena stata liberata: qui inizia il lungo flashback che ci porta all’inizio della lunga fuga del piccolo Joseph Joffo (Dorian Le Clech) e di suo fratello Maurice (Batyste Fleurial), ebrei francesi che vedono la loro infanzia sconvolta e stravolta dall’occupazione nazista e dall’inizio delle persecuzioni. Una vicenda che li rende protagonisti di mille (o forse più) mirabolanti avventure, alla ricerca della ricostruita unità familiare, alla ricerca dell’infanzia perduta, chiusa in un piccolo sacchetto di biglie.

sacchetto_biglieGià dall’incipit Christian Duguay ci rivela senza timidezze di sorta il più grande difetto del suo ultimo film: Un sacchetto di biglie è un film retorico, terribilmente retorico. Alle immagini che rimandano a una purezza infantile riconquistata a caro prezzo, dopo gli orrori insensati della guerra, seguono altre che ci parlano di una famiglia felice e di battaglie di cuscini prima di coricarsi; poi la fuga, la violenza, la persecuzione; e ancora, immagini di solidarietà fraterna e di breve (ma intenso) ricongiungimento familiare, con sottofondo di violini e lacrime di gioia; poi di nuovo la fuga, la paura, la tortura; e ancora, il prete generoso, il nazista sadico, ma anche la malattia (e la fulminea guarigione!), l’innamoramento adolescenziale, la compassione magnanima per il carnefice, e infine il ritorno a casa. Il tutto a) enfatizzato e amplificato da una colonna sonora strappalacrime; b) accompagnato da frasi ad effetto degne di un bacio perugina (“meglio il dolore di uno schiaffo che perdere la vita perché se ne ha paura”); c) scandito da scene tanto apocalittiche e da situazioni tanto teatrali e artificiose da oltrepassare ampiamente, in molti frangenti, i limiti del ridicolo.
“Ma il film è tratto da una storia vera”, si dirà, a sua discolpa. Giusto, ma c’è modo e modo di raccontarle, le storie vere. Del resto, lo stesso Duguay deve aver pensato proprio a questo, considerato che l’adattamento cinematografico del romanzo autobiografico di Joseph Joffo era già stato realizzato (1975, stesso titolo!) da Jacques Doillon. Evidentemente Duguay voleva raccontarci la vicenda dal suo punto di vista, o meglio a suo modo. Che è il modo di un giovane regista canadese, e forse risente innanzitutto del suo essere abissalmente distante dagli eventi. Distante nello spazio, distante nel tempo. Con tanta buona volontà, senza dubbio, ma forse non tanta buona fede. Perché, va pur detto, se non si vuol rischiare la stroncatura, trincerarsi dietro la tematica politically correct è un’ottima mossa. Specialmente se la ricetta, ormai da fin troppo tempo, è già stata sperimentata ed è risultata vincente anche in casi evidentemente al limite (del buon gusto kantianamente condiviso, s’intende) quali Il bambino con il pigiama a righe o La chiave di Sara.


Di certo una domanda, alla fine del film, sorge spontanea: è proprio questo l’unico modo per celebrare, ogni 27 gennaio, la memoria delle vittime di un atroce genocidio, o sarebbe forse meglio risparmiarci l’ennesima, inattaccabile speculazione (filosofica e non solo)?

Monica Cristini

Un sacchetto di biglie

Regia: Christian Duguay. Sceneggiatura: Benoît Guichard, Christian Duguay. Fotografia: Christophe Graillot. Montaggio: Oliver Gajan. Musiche: Armand Amar. Interpreti: Dorian Le Clech, Batyste Fleurial, Patrick Bruel, Elsa Zylberstein, Bernard Campan. Origine: Francia, 2017. Durata: 110′.

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