Oggetto Non Identificato
Il piccione di Roy Andersson è un oggetto volante non identificato nella cinematografia mondiale del nuovo millennio. Indescrivibile, inclassificabile, indigesto per alcuni, il suo cinema rarefatto e cosparso di punte inarrivabili di cinismo e humour nero riesce a coniugare la follia dei Monty Phyton con la sottile ironia nordica di Kaurismaki. La pellicola si apre con la descrizione di 3 diversi incontri con la morte. N1: mentre la moglie prepara la cena, un corpulento signore stramazza a terra nel soggiorno di casa sua; N2: una vecchia e arcigna madre inchiodata a un letto di ospedale non vuole lasciare la borsa coi suoi gioielli, per portarli con sé in cielo. N3: al tavolo di un ristorante su una nave da crociera un cliente esala l’ultimo respiro prima di aver toccato cibo, ma dopo aver pagato il conto.
La storia prosegue poi con un venditore di scherzi di carnevale e il suo assistente ritardato che partono per un viaggio di lavoro in cui cercheranno di vendere dentiere da vampiro, sacchetti che premuti emettono suoni divertenti e una inquietante maschera da uomo anziano. Il percorso di questa strana coppia sarà costellato di incontri e situazioni inaspettate e, apparentemente, al limite del non-sense che però mostrerà il lato oscuro della società di oggi. Incontreremo poi Lotte la Zoppa all’interno della sua taverna di Göteborg alle prese con marinai che saldano conti in prestazioni amorose, trasformando in musical le note di Glory, Glory, Hallelujah, ma anche un soldato dell’esercito di Re Carlo XII, un manipolo di Vichinghi e un gruppo di colonialisti inglesi alle prese con uno strano macchinario dove cuocere i popoli conquistati. Apparentemente tutto senza un filo logico, una connessione spazio-temporale, solo la stravaganza e l’assurdo a farne da collante.
Sorprendente Leone d’oro alla mostra 71ma Mostra del Cinema di Venezia, l’ultimo lavoro di Roy Andersson conclude la trilogia “sull’essere un essere umano”, introdotta da Songs from the Second Floor (2000) a cui segue You, the Living (2007). E’ la dimostrazione che un film totalmente eccentrico e votato a a un’ironia nera può competere per un premio di valore internazionale. Le lunge inquadrature fisse sembrano avere richiami pittorici che vanno da Hopper a Brugel fino a Grant Wood, i lunghi silenzi e gli sguardi vuoti e persi degli strambi personaggi sembrano usciti da una reinterpretazione grottesca di Waiting fot Godot di Becket. Ogni inquadratura è costruita con una maniacale attenzione al dettaglio, esseri umani compresi. La rigidità dell’azione e dei movimenti viene ribaltata dall’assurdità delle situazioni che possono essere interpretate solo all’interno del fluire dell’intero scorrere del film e non estrapolate come singole sequenze.
Sebbene il tema principale sia quello della morte e ogni atmosfera sia virata in grigio, si percepisce in ogni inquadratura la presenza di un alito filosofico che dona spirito vitale al film, a partire dal riflessivo piccione del titolo che in realtà è impagliato ed esposto tra le fredde sale di un museo. Andersson sfiora così il capolavoro con un’opera che lo spettatore deve però cogliere con collaborazione. Si tratta di un film complesso e apparentemente arido: il grande pubblico saprà mai apprezzare? 100 minuti in cui possiamo contare un solo, quasi impercettibile, movimento di camera, ma che vengono scanditi da un’ironia gelida tipicamente nordica. Dopotutto, solo in un mondo con notti infinite il rapporto con la morte può essere così caustico e sarcastico.
Carlo Prevosti
Oggetto Non Identificato (2)
C’è una specie di ossessione ricorrente, lassù nel profondo Nord, per le cose fisse (una macchina da presa distrattamente abbandonata in un angolo o movimenti molecolari di uomini che si spostano senza andare da nessuna parte). E c’è una predilezione tutta particolare, junghiana, anch’essa senza dubbio ossessiva, per lo straniamento dei personaggi, che poi altro non è che un debito nei confronti della tradizione pittorica dei vari artisti novecenteschi e dei fotografi alla Orwin Olaf, Gregory Crewdson e Richard Tuschman. L’abbiamo notato nel cinema di Stephan Brenninkmeijer, Victor Nieuwenhuijs e Maartje Seyferth, persino dei fiamminghi Peter Brosens e Jessica Woodworth, dove un Brecht tira in ballo un Hopper e un Hopper scomoda un Georg Scholtz. Così, d’ufficio, come se fosse un’abitudine socialmente accettata. Allora chi diamine è quel piccione che, merito e virtù del Leone d’Oro vinto a Venezia, sfida il botteghino con il suo atteggiamento da pensatore anticonvenzionale? Parrebbe proprio uno di quei volatili appollaiati tra i rami di Cacciatori nella neve, quadro di Peter Bruegel il Vecchio che, strana casualità, compare anche in un altro più o meno recente capolavoro del cinema settentrionale, Melancholia. L’uccello del maestro olandese fissa infatti un mondo innevato, popolato di uomini, storie e personaggi che occupano uno spazio più basso, distante e (di)staccato. Un po’ come l’obiettivo del regista, che ruba stralci di vita, pezzi di quotidianità, squarci da tragicommedia svedese con lo stesso sguardo intellettualmente blasé del suo amico pennuto. Vedendo oltre la cortina di questo ammiratissimo welfare state che, forse e malgrado ogni rigurgito di fiducia europeista, comincia a manifestare i primi segni di cedimento. Sì, in Svezia fa freddo, la gente si rifugia nelle locande per nutrire le proverbiali schiere di alcolisti e, appena l’occasione lo consente, si impantana nei convenevoli di una conversazione superficiale per la paura di affrontare un dialogo profondo, o semplicemente per non ammettere che qualcosa non va come si vorrebbe (“Sono contento che stiate bene. Ho detto: sono contento che stiate tutti bene”). Si ripetono le cose, due o tre volte come minimo, uno dei personaggi è sordo per davvero ma ce ne accorgiamo soltanto perché tutti gli altri alzano la voce. È un duplice contrasto, quello dell’ennesimo Andersson del cinema (con due esse, fate ben attenzione a non confonderlo), che se da un lato stabilisce una cesura visiva con un racconto che non racconta (o con una molteplicità di racconti che raccontano di tutto in un universo dove nulla di eccezionale succede), dall’altro non rinuncia a descrivere un processo di alienazione umana che si rispecchia nel vocabolario. En duva satt på en gren och funderade på tillvaron. Stranissimo linguaggio, lo svedese, talmente marginale da farsi stratagemma ontologico per ogni tentativo di spaesamento, così periferico da identificarsi con la bruma, la pioggia, l’essenzialità dell’arredamento Ikea. A partire, poi, proprio da quella cittadella del Västra Götaland da cui proviene lo stesso regista e in cui è ambientato l’intero film: Göteborg, che in realtà si legge [jœtəˈbɔrj], una cosa altra, un oggetto non identificato che in ogni caso non è mai ciò che lo spettatore potrebbe pensare. Naturalmente la distribuzione italiana non ha pietà per i jeux de mots, anzi per i trompe-l’œil fonetici, e così tutto ciò che può essere tradotto, mutilato e storpiato viene sottoposto a rigoroso adattamento. Comunque Andersson conclude una trilogia volutamente astratta, ingombrante e non traducibile, sull’essere un essere umano (o sulle difficoltà di essere un essere umano), le cui prime due parti (Sånger från andra våningen e Du levande) appaiono registicamente assai simili al Piccione; e con esso finiscono per rappresentare un’apologia della dissociazione emotiva, dell’allontanamento e della mancanza di aspettativa. Ma di che parla questo benedetto Piccione? Semplicemente della bellezza di un momento, quell’attimo che fugge intrappolato nella millenaria notte scandinava, la semplicità della neve, l’incanto del dolore, l’incertezza dell’effimero e la ciclicità della morte. A Göteborg, che non si legge mai, come si scrive succedono cose eccezionali: due venditori depressi di materiale carnevalesco falliscono nel loro coraggiosissimo tentativo di far ridere la gente; Carlo XII di Svezia beneficia uno sparuto pubblico da bar della sua baldanzosa presenza, cavalli e consiglieri, soldati e vessilliferi, dilettandosi prima a fustigare un giocatore d’azzardo reo di aver scommesso qualche banconota alla slot, quindi arruolando un giovane cameriere nella speranza di trasformarlo nel proprio amante. Peccato che Carlo XII sia morto in circostanze misteriose agli inizi del diciottesimo secolo, ma in questa cittadella il tempo scorre spesso al contrario, e non è inusuale scivolare in una piccola osteria degli anni quaranta per farsi servire da Lotta la Zoppa, barista che baratta un bicchiere di alcol per un bacio… Sono ben trentanove le scene che scorrono sui pensieri di questo animale impagliato, esposto nel prologo agli interessi di un improvvisato ornitologo tipicamente anderssoniano: panciuto, pittato di biacca e all’apparenza con un piede nella fossa. Ognuna di esse ha richiesto circa un mese di lavoro, dalle ricostruzioni d’interno assolutamente scarnificate alla fotografia inquietante, merito di István Borbás, che sgomita tra perturbante Neue Sachlichkeit e iperrealismo Ralph Goings. La Lebenslust lascia presto spazio a una sonnambulica Totentanz dei vivi e dei morti, si balla e si canta sulle note di John Brown’s Body, ma ciò che rimane più impresso è una sconvolgente metafora (crepuscolare) sull’Occidente: un grande organo cilindrico nel cui ventre sanguinari colonialisti in tenuta da esploratori conducono un’intera tribù di negri. Si appiccano le fiamme, l’organo ruota su se stesso come uno spiedo e un gruppuscolo di vecchi inamidati segue lo spettacolo sorseggiando champagne sulla terrazza di un’elegante dimora. Siamo contenti che in Svezia si stia tutti bene…
Marco Marchetti
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
Regia e sceneggiatura: Roy Anderson. Fotografia: Gergely Pàlos, Istvàn Borbàs. Interpreti: Holger Andersson, Nisse Vestblom. Origine: Svezia, 2014. Durata: 100′.