Sappiamo di vivere fragili in un mondo fragile, in un sistema puntellato da poche certezze, anche dove la solidità delle impalcature sociali dovrebbe garantire prospettive edificanti. La terra sotto i nostri piedi è invece argilla friabile, e non c’è impasto che garantisca le fondamenta delle società moderne di fronte agli scossoni delle crisi economiche, delle guerre locali che tracimano dai confini nazionali, dalle fughe disperate lungo i corridoi migratori. Il terzo mondo aggredisce il primo con richieste di equità, evidenziandone la fragilità ad ogni assenza di risposta.
Sarà per questo che la storia raccontata dal colombiano César Augusto Acevedo colpisce lo spettatore occidentale. Un mondo fragile è un mondo ingiusto, profondamente ingiusto, un territorio ai confini della civiltà da cui scappare per sopravvivere (e viene in mente Vulcano, film sudamericano uscito in questi stessi mesi). E’ la scelta di Alfonso (Haimer Leal), campesino ormai anziano, che dopo diciassette anni di assenza ritorna dalla sua famiglia, costretto dalla malattia ai polmoni che ha colpito il figlio Gerardo (Edison Raigosa), un bracciante impiegato nelle piantagioni di canna da zucchero. A letto, in condizioni precarie, tocca alla due donne di casa, la madre Alicia (Hilda Ruiz) e la moglie Esperanza (Marleyda Soto) impugnare il machete per garantire il minimo indispensabile per loro e per il piccolo Manuel, bimbo di sei anni, figlio di Esperanza e Gerardo. Alfonso si mette così a servizio, umilmente impiegato nelle faccende domestiche, poco tollerato da Alicia che non gli ha perdonato l’abbandono del tetto coniugale. Le condizioni di Gerardo si aggravano, i lavoratori vengono sottopagati o non pagati affatto; Alfonso tenta di proteggere Manuel dalle tensioni familiari, mentre una coltre di cenere, generata dai continui roghi nelle piantagioni, spegne costantemente il sole e le espressioni dei lavoratori.
La tierra y la sombra, è il titolo originale che meglio inquadra questo film disperato, Camera d’Or al festival di Cannes 2015, dove resistere non vuol dire necessariamente sopravvivere. Alicia ha tentato in tutti i modi di resistere e con lei il figlio e con lui, poi, la moglie. Ma un figlio piccolo… come si fa a guardare al futuro, quando la bellezza di una terra generosa di colori e odori è stata impoverita dalle coltivazioni intensive? Quando la dignità dei lavoratori è calpestata dagli interessi delle multinazionali? Le ceneri hanno cancellato l’orizzonte, ma il regista con stile asciutto, pochi e controllati movimenti di macchina, sonoro quasi sempre diegetico, non confeziona un film esplicitamente politico e neppure didascalico. La sua denuncia si compone di immagini semplici e potenti, attraverso una narrazione lenta e mai compiaciuta, dove le fragili ragioni di Alicia si contrappongono alla scelta di cambiare vita di Esperanza (nome significativo), come fu per Alfonso, che aveva presagito l’inizio della fine. Acevedo indugia sui volti dei braccianti, ne spiega le ragioni senza far comizi, ne evidenzia la solidarietà, quando le due donne rimangono sole con tutto il carico drammatico del loro presente (un licenziamento inopportuno). Nella relazione tra Alfonso, il nonno, e Manuel, il nipote, emerge il desiderio di tramandare il senso di un rapporto con la terra che pare anacronistico. Per questo il vecchio è figura nostalgica, che ha sepolto i propri sogni e che sfiora il futuro sulle guance del bambino. Il presente è metaforizzato da Gerardo, l’uomo morente che Alfonso lasciò ragazzino, chiuso in una stanza spoglia e buia che rifugge la luce sporca dell’esterno: Gerardo riverso, Alfonso seduto che apre le finestre in cerca di una spiegazione, mentre un alito di vento muove appena le tende ricamate, come fosse un interno dipinto da Andrew Wyeth.
L’ombra che copre la terra di questo mondo fragilissimo sembra fatta della stessa sostanza della terra in cui vivono i protagonisti di Interstellar, arida e inospitale, lì rampa di lancio per lo spazio interstellare, qui inferno di fuoco, dove bruciano le speranze di uomini e donne che non hanno mai avuto la possibilità di decidere cosa essere e cosa diventare.
Alessandro Leone
Un mondo fragile
Regia e sceneggiatura: César Augusto Acevedo. Fotografia: Mateo Guzman. Montaggio: Miguel Schverdfinger. Interpreti: Haimer Leal, Edison Raigosa, Hilda Ruiz, Marleyda Soto. Origine: Colombia, 2015. Durata: 97′.