Una delle scene più drammatiche nella storia del cinema, a qualunque livello la si legga, resta la morte della madre di Bambi per mano di un cacciatore: “La tua mamma non tornerà mai più! L’uomo l’ha portata via”, sono le terribili parole di suo padre, il Cervo reale della foresta, che poi aggiunge “Devi essere coraggioso, devi imparare a vivere da solo. Vieni, figlio mio!”, a segnare il passaggio di suo figlio, il “principino”, dall’età della fanciullezza e dell’innocenza all’età adulta del disincanto. Nel capolavoro disneyano del 1942, tra l’altro film preferito dallo stesso Walt Disney, Bambi, grazie anche agli insegnamenti del padre, entità maestosa e ineffabile in ogni sua apparizione, dopo la morte della madre attraverserà tutto il cerchio della vita imparando che il tempo lenisce ogni cosa, fino ad ereditare il trono e divenire lui stesso guardiano delle foreste e simbolo di solennità agli occhi degli altri animali e di noi spettatori.
Come per Bambi, ci sono alcune pellicole che devono, almeno in parte, il loro successo alla comparsa di un Cervo, animale totem per antonomasia, che ha contribuito a renderle immortali nella memoria di ogni appassionato di cinema. Ma che si tratti di delicate storie d’amore come lo splendido Corpo e anima della registra ungherese Ildiko Enyedi, vincitrice dell’Orso d’Oro all’edizione 2017 del Festival del cinema di Berlino, dove i due interpreti principali sognano di essere appunto due Cervi in un bosco innevato, piuttosto che di opere drammatiche, commedie, film per bambini o a volte anche horror, probabilmente per il suo valore fortemente simbolico, il Cervo più di altri animali è divenuto presenza regolare e ricorrente in molte storie che lo vedono a volte protagonista delle vicende narrate altre vittima inconsapevole degli eventi.
Usciamo dalla foresta di Bambi, un bambino seduto sui binari del treno è intento a leggere un fumetto di fantascienza: si tratta di uno dei quattro ragazzini di Stand by me (Rob Reiner,1986, film tratto dal meraviglioso racconto The Body di Stephen King, sempre in bilico tra avventura e nostalgia) che in Oregon, nell’estate del 1959, partono per un’escursione di cinquanta chilometri lungo la ferrovia, affrontando varie avventure alla ricerca del cadavere di un ragazzo della loro città scomparso giorni prima. Mentre sta leggendo il suo fumetto, un Cervo esce dal bosco e lo guarda incuriosito, per poi allontanarsi silenziosamente nel fitto del bosco. La voce narrante del ragazzo ci dice poi di non aver raccontato quella visione ai suoi tre amici, che in quel momento stavano ancora dormendo, perché ha avuto un’illuminazione intuendo che quel Cervo silenzioso rappresentava la classica “quiete prima della tempesta”: vale a dire tutto ciò che da quel momento in poi sarebbe arrivato nelle loro vite, in primis l’abbandono dell’età dell’adolescenza e la presa di coscienza dell’umana mortalità attraverso la scoperta ormai prossima del cadavere.
Ma il Cervo, grazie al rinnovarsi periodico delle sue corna, assume spesso anche un valore allegorico specifico nel Cinema: ci sono tre splendidi film drammatici, infatti, in cui lo vediamo divenire simbolo di rigenerazione vitale e metafora della catarsi che i protagonisti delle stesse, tutte figure disperate a causa di eventi terribili che hanno cambiato per sempre il corso delle loro vite, devono affrontare per riuscire a fare pace con il loro dolore e affrontare un nuovo inizio. Prisoners (Denis Villeneuve, 2013) un thriller cupo e desolante dove un padre deve fare i conti con il rapimento della figlia e soprattutto con il suo desiderio di farsi vendetta da solo; Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, 2017), la storia lacerante di una madre rabbiosa e desiderosa di giustizia che non riesce ad accettare la terribile morte della figlia; I segreti di Wind River (Taylor Sheridan, 2017), ambientato in una riserva indiana del Wyoming, un posto sperduto, silenzioso e perennemente innevato, dove l’unico modo per sopravvivere è essere dei guerrieri spinti dallo spirito di sopravvivenza: a volte però questo spirito non basta e, dopo il ritrovamento del cadavere di una ragazza, inizia una caccia all’uomo fra distese di neve, foreste e misteri sempre più fitti perché come recita un vecchio detto navajo “I lupi non uccidono i cervi sfortunati; uccidono i più deboli”.
Altre volte, invece, il Cervo è un essere portatore di minacce, come nel raffinato horror a sfondo razziale Scappa – Get Out (Jordan Peele, 1987) dove viene accidentalmente investito e ucciso dal protagonista del film. Qui Chris, un ragazzo di colore che viene portato con l’inganno dalla sua fidanzata a una festa in campagna organizzata dai genitori di lei e da altre famiglie di bianchi razzisti, in un ribaltamento di ruoli con l’animale capisce che se non scappa è destinato a diventare il loro “trofeo” di caccia. Oppure in Contrattempo (Oriol Paulo, 2017) thriller spagnolo che ricorre al medesimo escamotage del Cervo investito a inizio film dai due protagonisti: ancora una volta, l’animale è metafora del pericolo che incombe su di loro da quel momento in poi, quando scoprono di essere rimasti invischiati in una mortale caccia al tesoro psicologica. In entrambi i film, l’incidente con il Cervo crea una “equivalenza inconscia” tra cacciatore e cacciato, divenendo per loro una sorta di guida spirituale che li condurrà fuori dal pericolo o alla soluzione del mistero.
Ci sono narrazioni in cui il Cervo è latore di disgrazie imminenti. Il sacrificio del Cervo Sacro (Yorgos Lanthimos, 2017) capolavoro sul dolore e sul senso di responsabilità, il cui titolo rimanda al sacrificio con cui si conclude Ifigenia in Àulide, tragedia greca cui smaccatamente si ispira lo script: ma se nell’opera di Euripide l’uccisione della protagonista da parte del padre veniva interrotta da una Cerva sacrificale inviata dalla dea Artemide, nell’angosciante pellicola del talentuoso regista greco le cose andranno diversamente. In Into the Wild (Sean Penn, 2007), libera trasposizione del libro di Jon Krakauer Nelle terre estreme diventato un classico della sottocultura urbana, un povero Cervo viene ucciso dal protagonista, Christopher McCandless, un giovane benestante che rinuncia a tutte le sue sicurezze materiali per immergersi nella natura selvaggia alla ricerca di un bene superiore. Lo uccide solo per sfamarsi non avendo altro da mangiare, salvo poi non riuscire a causa della sua impreparazione a conservare la carne che verrà resa immangiabile dagli insetti. La scena del Cervo divorato dalle mosche diviene presagio della sorte che da lì a breve toccherà anche Christopher quando perirà nel dolore dopo aver mangiato, sempre per la sua imperizia, una bacca avvelenata.
Prima di chiudere con quella che resta l’apparizione probabilmente più famosa e sicuramente la più catartica di questo animale regale nella storia del Cinema, un cenno lo merita la “Signora Ammazzacervi” incontrata ne Una Storia Vera (David Lynch, 1999) che vanta il record di tredici Cervi investiti in sette settimane andando al lavoro. In quello che è il meno lynchiano dei film di Lynch, tant’è che il titolo originale è The Straight Story a rappresentare il viaggio lineare, lento e poetico di Alvin, un anziano che attraversa l’America su un trattore per andare a trovare il fratello morente con cui non ha rapporti da anni, spicca l’incontro con questo surreale personaggio “ammazza cervi”: la donna, in un monologo rabbioso in cui si domanda da dove arrivino ogni volta i Cervi che investe, dà l’impressione di voler uccidere i fantasmi che si porta dentro senza però mai riuscire a chiudere i conti con il passato. Cosa che invece vuole fare Alvin nel suo viaggio di riappacificazione con il fratello e, appunto, con i suoi demoni.
Al termine di questo percorso nei boschi e nelle foreste cinematografiche, il Cervo che negli occhi e nei cuori di noi “cacciatori di immagini” sovrasta tutti gli altri per la sua imponenza figurativa, resta indiscutibilmente quello del capolavoro Il Cacciatore (Michael Cimino,1978), pellicola storica, Oscar come miglior film e miglior regia nel ’79: un film che racconta la guerra in Vietnam e gli orrori ben peggiori che la stessa ha creato nelle teste dei giovani americani che hanno dovuto combatterla, in cui Robert De Niro – in una delle sue migliori performance di sempre – è un uomo semplice che avendo vissuto quell’inferno scava nell’abisso della sua anima per trovare un nuovo equilibrio. Dopo aver giocato alla “roulette russa della vita” innumerevoli volte, ritrova un senso solo quando andando a caccia si imbatte in un Cervo, di fronte a uno dei paesaggi cinematografici più splendidi mai visti: tanto simbolico quanto concreto ai suoi occhi, l’animale è un bersaglio facile ma decide di non ucciderlo e spara a vuoto in aria. Il Cervo si allontana serafico e lui si lancia in un grido atavico, carico da un lato di rabbia e dall’altro di voglia di ricominciare: un “Ok” rabbioso, lunghissimo e pregno di speranza, urlato al di sopra di una cascata, a rimettere a posto tutto, a convincerlo a tornare a Saigon per recuperare un amico perduto e sistemare l’irrisolto riprendendosi in mano la sua vita.
E se il Cervo risparmiato da Robert De Niro è per lui metafora di rinascita, oggi più che mai il Cinema ha bisogno del suo Cervo che gli garantisca protezione nonché la possibilità di ripartire più forte e sano che mai quando questo momento drammatico sarà passato: nel frattempo la speranza è che, al di là delle leggende e della mitologia, qualcosa di concreto venga fatto per salvaguardare quella nobiltà, quella solennità e quella maestosità che ai nostri occhi tanto i Cervi quanto il Cinema da sempre possiedono.
Luca Masera