Nel 1973 a Roma veniva sequestrato il nipote sedicenne del miliardario John Paul Getty, all’epoca l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio smisurato cresciuto trivellando mezzo pianeta e vendendo oro nero. Dietro al rapimento la mano dell’emergente ‘ndrangheta calabrese, che aveva quantificato il valore del ragazzo in diciassette milioni di dollari. Troppi secondo l’avaro Getty, che investiva il suo denaro unicamente in opere d’arte e grandi ville, sicuro di essere la reincarnazione dell’imperatore Adriano. Per questo i banditi inviarono alla mamma disperata parte dell’orecchio destro di John Paul III, con la speranza di ridefinire un accordo per un rilascio sotto pagamento meno oneroso: quattro milioni di dollari, all’epoca un miliardo e settecento milioni di lire. Le foto del ragazzo con l’orecchio mozzato vennero pubblicate in Italia e diffuse in tutto il mondo, il sequestro Getty divenne uno sconvolgente fatto di cronaca e di costume, poiché rivelò l’inquietante profilo di un filantropo che pubblicamente dichiarava inopportuno pagare anche solo un centesimo per il nipote, e non perché non gli volesse bene (Paul era il suo prediletto), ma per evitare altri sequestri che lo avrebbero mandato in rovina.
Una storia da cinema che al cinema ci arriva dopo 45 anni. Merito di Ridley Scott, che il film l’ha diretto, del produttore Quentin Curtis, che ha opzionato i diritti del libro di John Pearson Painfully Rich: the Outrageous Fortunes and Misfortunes of the Heirs of J. Paul Getty (in Italia per Feltrinelli), e dello sceneggiatore David Scarpa, che ha messo insieme cronaca e romanzo per raccontare uno dei personaggi più controversi del secolo scorso, mescolando biopic e thriller. Per impersonare il magnate Scott sceglie Kevin Spacey, invecchiato al make-up, strapieno di protesi, che vince la concorrenza di Christopher Plummer, stranamente, perché Plummer sarebbe un perfetto Getty. Film girato e montato, pronto per l’uscita estiva. Ma siccome arte e vita a Hollywood si mescolano producendo capolavori da antologia e una permeabilità che non distingue realtà e finzione che confonde pubblico, privato e rappresentazione cinematografica, a Kevin Spacey tagliano la gola dopo un processo sommario transmediale, e la produzione, che non può permettersi di mandare a monte il film e nemmeno di rischiare il boicottaggio in sala, taglia l’attore rantolante. Soluzione: Plummer viene ricontattato per vestire un personaggio che doveva già essere suo. A sei settimane dalla premiere il regista richiama troupe e cast artistico, vengono riallestiti i set e in dieci giorni vengono rigirate le scene in cui compariva Spacey (e non sono poche). Un miracolo che farà storia!
Plummer è magnifico, il migliore in un cast che annovera Michelle Williams nella parte di Gail Harris, la nuora del miliardario, e Mark Wahlberg, Fletcher Chace, ex agente CIA al soldo di Getty e incaricato di riportare a casa il nipote. Il Getty di Plummer è protagonista del film anche quando si nasconde dietro le quinte, perché aleggia spettrale sulle sequenze calabresi che descrivono la detenzione di John Paul III, si fa pesante assenza nell’abitazione di Gail e respira sulla sua disperazione di mamma. Getty è l’uomo in sala comando che potrebbe cambiare la storia schiacciando un pulsante, incarnazione dei potentati sovrastatali e multinazionali che sarebbero diventati da lì a pochi anni davvero delle eminenze oscure, incorporee, matrici di un futuro di speculazioni e vampirismi, di connivenze tra capitali privati, apparati statali e mafie (si capisce quanto sia già tutto in potenza nel 1973).
Scott e Scarpa dipingono un personaggio ossessionato dalla propria ricchezza, avaro ma non bassamente avido, filantropo che investe nella bellezza dell’arte perché non delude, così essenzialmente fissata nel tempo, aliena alle trasformazioni umorali degli uomini, manufatti perfetti e incapaci di tradire. Il sospetto che la sfrenata corsa all’arricchimento sia patologica non sfiora Getty, perché gli è congeniale come l’aria e lo rende un gran figlio di puttana, come lo descriverà Fletcher Chace. Non c’è misura che possa quantificare l’accumulo progressivo di denaro che via via cresce nelle casse di una Fondazione che ne sottrae sostanza al fisco. Ma non è di questo che ci parla Tutti i soldi del mondo. Non è la relazione con il denaro, che in mano a Getty non vediamo mai, o non solo. La striscia cifrata che costantemente passa tra le sue mani dalla telescrivente è la sostanza del potere che i soldi assicurano, una forza invisibile che mette il sovrano al di sopra di tutto, della sua famiglia, per cui non ha sacrificato mai spazio utile al lavoro; al di sopra del tempo e della storia, erede “legittimo” di tutto ciò che fu di Adriano; al di sopra della vita, anche quella dell’amato nipote, amato fino a quando ne ha potuto disporre. Tutte le sequenze girate nella ricca villa Getty sono magistrali e rendono, nella relazione tra l’uomo solo e gli spazi che occupa, l’alienazione dal mondo degli uomini, la spaccatura tra lui e noi altri. Plummer comprime al posto che esibire, riuscendo in pochi giorni di riprese, come se si fosse preparato anni per questa parte, a passare dall’intransigenza del re al tentennamento quasi impercettibile che lo sorprende in uno degli snodi del film (di cui taciamo). Ma è qui che il film smette di essere narrazione di un fattaccio per farsi apologia della decadenza.
I venti minuti iniziali – quando il film sembrava dovesse essere il racconto in prima persona del rampollo rapito, con i flashback (pochi e mirati) sulla svolta araba del nonno (i primi astuti passi verso l’Impero), sulle relazioni mancate con il figlio e i primi intrighi di corte (shakespeariani) – si sedimentano e si fanno da parte per lasciare spazio al plot centrale, teso tra Italia (Roma e la Calabria) e un altrove senza indirizzo dove staziona l’astrazione del potere. Sono lì quei venti minuti che si aprono con la Dolce Vita per finire in una cella fetida dell’Aspromonte, in attesa di ritornare sul finale come cenere da raccogliere dopo una cremazione. C’è la Storia di una famiglia che ha fatto tanta storia nel ‘900, ma anche, in filigrana, il disegno di una finanza che non risparmierà nessuno, pronta a ballare sui cadaveri di chi dovrà soccombere.
Peccato per le concessioni poetiche di Scott quando ridicolizza a tratti le nostre forze dell’ordine, che invece il campo di battaglia, in anni di piombo, lo conoscevano bene (ma può essere che sia davvero andata come il film ci mostra), che soprattutto macchiettizza le Brigate Rosse, liquidate in un segmento talmente semplificatorio da risultare inutile e disturbante. Per lo meno fortunatamente evita i luoghi comuni su spaghettari e mandolini, grazie anche al personaggio di Cinquanta, il sequestratore dal cuore d’oro interpretato dal bravo Romain Duris, che non è nemmeno italiano. Accontentiamoci perché un po’ ce la siamo voluta.
Alessandro Leone
Tutti i soldi del mondo
Regia: Ridley Scott. Sceneggiatura: David Scarpa. Fotografia: Dariusz Wolski. Montaggio: Claire Simpson. Musiche: Daniel Pemberton. Interpreti: Michelle Williams, Christopher Plummer, Mark Wahlberg, Romain Duris, Charlie Plummer. Origine: Usa, 2017. Durata: 133′.