Romantico non troppo
Portare Joseph Mallord William Turner su grande schermo si presentava come un’operazione che, già in partenza, aveva un punto di forza e una criticità. Partiamo dalla criticità per nulla trascurabile: la vita del pittore inglese (in particolare i suoi ultimi venticinque anni, quando fama e denaro rendevano più piacevole il lavoro dell’artista) non è propriamente un’avventura straordinaria, di quelle che non aspettano altro che di essere raccontate al cinema. Anzi, se escludiamo la “leggenda” di una tempesta marina vissuta da Turner legato in cima all’albero di una nave a godere dei violenti ceffoni della burrasca – che il regista Mike Leigh rappresenta senza tuttavia mitizzarne la portata – tutto il resto è pratica pittorica, relazione con il padre, qualche amante, disquisizioni accademiche e rivalità tra colleghi, peraltro scevre da intrighi. Il punto di forza invece è nella figura stessa del Turner paesaggista, apprezzato, certamente conosciuto, ma non tanto da correre il rischio – in agguato quando si tratta di biopic – di fratturare la relazione con il pubblico, imponendo una versione singolare di un personaggio collettivo e, per questo, “posseduto”, stratificato nell’immaginario. Leigh è così libero di impressionare sullo schermo uomo e pittura con l’unico obbligo di doversi confrontare con la Storia, cosa che gli riesce assai bene e che, pare, lo abbia divertito non poco.
Turner dunque è prima di tutto un affresco vittoriano affascinante, che evita di farsi troppo dickensiano, privilegiando le atmosfere borghesi e aristocratiche dei salottini intellettuali e dell’Accademia, dove disquisire di musica e pittura significa spesso inscenare teatrini grotteschi. Il contesto in cui Turner, al culmine della fama e maturo artisticamente, cerca di spingere la sua pittura verso la rarefazione è quello di un’Inghilterra già splendidamente isolata, lontana dalle polveri europee post-restaurazione e dunque dalle crisi politiche ed economiche che minacciavano gli assetti al di là della Manica, invasa dallo spirito della modernità, eccitata da macchine fotografiche, treni a vapore, splendidi edifici in ferro e vetro.
Timothy Spall si dimostra ben più di un gigantesco caratterista del cinema britannico, definendo un personaggio ombroso e tutt’altro che socievole, insofferente agli esercizi speculativi (si fa beffe del giovane John Ruskin), spesso provocatorio con i colleghi (una perla il confronto muto con il rivale Constable durante l’allestimento di un’esposizione) e sgradevole anche con la fedele Hannah (di cui non disdegna i “servizi”, guardandosi bene dal regalarle un gesto che sappia d’affetto), preoccupato dall’avvento della fotografia. Eppure, nonostante le spigolature, i continui mugugni, i comportamenti triviali, Leigh e Spall riescono nel miracolo di accendere nello spettatore la meraviglia per l’artista romantico che meglio di ogni altro seppe trovare nel paesaggio il “pittoresco”, mediando dalla sensazione all’emozione. Il regista chiede al direttore della fotografia Dick Pope di iniettare le inquadrature del suo film di una luminosità epifanica, rinviando costantemente alla creazione artistica e costruendo al tempo stesso suggestivi paralleli con le tele, che pure rimangono fuori campo lungamente, quasi a preparare l’obiettivo della macchina da presa di Leigh.
Il percorso di Turner verso la luce, che tanta influenza avrà sugli impressionisti, è una cronaca che il regista non trasforma mai in didascalia. I venticinque anni trascorrono sullo schermo senza interpunzioni o sovraimpressioni, sincronizzando la narrazione sul susseguirsi degli eventi personali (la morte del padre, la gravidanza di una delle due figlie disconosciute, la relazione con Mrs. Booth) o, semplicemente, sulla pelle martoriata della povera Hannah (una malattia che degenera progressivamente), sul corpo di William che si fa via via più pesante, sulle tele attraversate da bagliori improvvisi, dove ad un certo punto non è quasi più possibile distinguere altro che i turbinii di tempeste di luce e pulviscolo che svaporano la materia. Leigh avvicina Turner per descrivere il percorso del suo sguardo negli anni in cui avrebbe potuto continuare a dipingere in serie naufragi e tormente, al limite incrociando eventi storici, come gli schiavi gettati in mare da una nave mercantile o il rogo delle due Camere del Parlamento, entrando nelle grazie della giovane regina Vittoria (che invece liquida come inaccettabile il suo lavoro).
Romanticamente l’artista sceglie la ricerca solitaria e, tra campagna e mare, dove vivrà una vita parallela con la vedova Booth, si fa paradigma dell’artista moderno. Romanticamente Leigh sceglie di assecondare vizi e virtù di un uomo indomabile e inafferrabile, come la Natura che tentava di fissare col colore, in una pratica che univa indissolubilmente occhio e mano fino allo sfinimento, per arrivare ad afferrare in punto di morte l’unica verità possibile: la luce è Dio.
Alessandro Leone
Silenzi e colori raccontano la storia
Forse, questa volta più di altre, occorre prestare orecchio ai silenzi della pellicola in questione e scovarne i significati nascosti, le parole volutamente non dette. Inquadrare sotto una specifica categoria il nuovo progetto del regista Mike Leigh non è affatto facile, anzi, attribuirvi un senso di lettura univoco risulta più arduo di quanto ci si potesse aspettare. Dopotutto, districare il gomitolo di sfaccettature e interpretazioni avanzate sulla vita di un artista come Turner avrebbe creato seri problemi a chiunque. Leigh, tuttavia, decide di tentare e il risultato ottenuto non dispiace nel complesso. Lungi dal volersi soffermare sull’attinenza a fatti e stratificazioni caratteriali del pittore romantico, lo sviluppo narrativo riesce ad isolare l’uomo come unicum a sé stante, focalizzandosi, invece sull’operato del pittore.
Dopo la prima mezzora di film, difatti, risulta evidente che il vero intento del regista sia la realizzazione di un dipinto nel dipinto, la riscoperta di un movimento artistico al quale pochi si rifanno con cognizione di causa.
I concetti che sottostanno alla definizione di romantico sono noti, dal soggettivismo al rigetto dei criteri illuministi, il misterioso e l’occulto, la potenza incontrastata della natura, imposta come forza primordiale, il sublime e il mozzafiato e il conseguente sgomento dell’animo umano, terrorizzato e allo stesso tempo affascinato da potenze tanto belle quanto distruttive. Ricordiamo il dipinto di Frederich Viandante sul mare di nebbia.
Ciò nonostante, cosa si celi dietro i pensieri di coloro che hanno contribuito alla nascita di un simile movimento artistico, resta difficilmente comprensibile. Ecco, dunque, l’intersezione tra storia e atto cinematografico che Leigh evidentemente cercava. I ritmi sono decisamente lenti, ma la sceneggiatura, non a caso scritta dallo stesso Leigh, riesce a rimanere statica e d’accompagnamento, fissandosi più sull’immagine, diretta dalla sapiente fotografia di Dick Pope, che sull’evoluzione degli interpreti.
Il personaggio di Turner impersona al meglio la figura dell’uomo taciturno, schivo e impegnato nel suo genio creativo, contribuendo a screditare l’attenzione sul suo stesso ruolo, al fine di riuscire nell’elogio di una descrizione vergine delle origini del romanticismo stesso; buona l’interpretazione del personaggio di Hannah Danby (Dorothy Atkinson) e W. Turner Senior (Paul Jesson), sebbene vengano configurati come co-protagonisti marginali.
Attraverso i movimenti di camera è singolare come Leigh riesca a proiettare la nostra attenzione sulla linea immaginaria che collega lo sguardo di Turner alle tele che egli dipinge. L’effetto è particolare ed estremamente intelligente. Talvolta si ha addirittura la sensazione che la camera sia nell’occhio del pittore.
I rapporti interpersonali presenti nella biografia artistica del pittore della luce coronano solo parzialmente il centro nevralgico di quello che potrebbe essere definito un documentario muto. I silenzi dominano uno spazio man mano più distorto, mentre un’anarchica colorazione sfonda gli argini dei preconcetti vittoriani, rigidamente saldati alla forma, riflessa chiaramente nei quadri esposti all’accademia.
Lavoro di studio ed unità, il nuovo film di Leigh è da vedere, possibilmente privi di preconcetti e inclini a un abbraccio formativo di notevole portata che, tra i vari pregi, può vantarsi di una colonna sonora di tutto rispetto (Gary Yershon) e giustamente candidata agli oscar 2015.
Mattia Serrago
Turner
Regia e sceneggiatura: Mike Leigh. Fotografia: Dick Pope. Montaggio: Jon Gregory. Musiche: Gary Yershon. Interpreti: Timothy Spall, Tom Wlaschiha, Lesley Manville, Dorothy Atkinson, Marion Bailey. Origine: GB, 2014. Durata: 149′.