A guardare il terzo lungometraggio di Federico Zampaglione, viene innanzitutto da chiedersi quando il leader dei Tiromancino la smetterà di prenderci per il culo. D’accordo, non lo fa con cattiveria, ma con quella scanzonata complicità che muta lo scherzo in pernacchia, e la beffa in una partecipe gomitata nelle costole. Lo fa perché è un ragazzone che ama divertirsi, stare in compagnia a chiacchierare del bel cinema che fu, e soprattutto perché ha parecchi soldi da buttare e una bella lingua con cui ungere i dovuti meccanismi. A uno così non puoi volere male, e lo devi trattare come un burlone di paese, uno di quei tizi che gigioneggiano alle sagre del gorgonzola saltando sui tavoli e imburrandosi le dita con le patatine fritte. Già in Shadow (2009), da cui Tulpa ha mutuato un ballerino svizzero dal nome tanto fascinoso quanto impronunciabile, Nuot Arquint, Federico aveva dato prova di grande qualità intellettiva: una bella alpinista, immersa nel bosco più profondo e isolato, era riuscita liberarsi dalle mire sessuali di un bifolco spruzzandogli in viso dello spray al peperoncino. Il che sarà pure poco coerente sul piano narrativo, ma geniale sotto quello didattico: che ogni donna ne faccia tesoro qualora pianificasse un’escursione in montagna, tra il thermos del caffè e il tupperware col vettovagliamento è bene ricavare un po’ di spazio per una bomboletta di liquido urticante; e che ogni spettatore non si lasci scappare Tulpa, che in un certo senso è una sintesi dell’intera estetica zampognara, l’opera più compiuta e rigorosa dal punto di vista formale. È infatti con questa pellicola che il nostro fa le cose in grande, e dopo aver recuperato dal cappello del prestigiatore un altro soggettista da tempo dedito al raccoglimento di ciliegie, Dardano Sacchetti, scrive una delirante sceneggiatura in salsa tibetana (il titolo si riferisce a delle entità tantriche prodotte per via meditativa). Poi ci fa recitare amici e congiunti, dalla compagna Claudia Gerini, una manager attiva nel ramo finanziario che di notte si trasforma in un’assidua frequentatrice di club scambisti, a Michele Placido, in questo film ingombrante come un baobab in un appartamento; la Cucinotta finanzia, Matteo Garrone beneficia di qualche ringraziamento, c’è pure il figlio di Lamberto Bava in sala macchine, e insomma è una grande famiglia. Quello che manca è tutto il resto, a partire da una storia che sia una: la Gerini scopa come in un porno-soft degli anni Settanta, niente erezioni e giusto qualche tetta solitaria, e un killer conciato come il maniaco di Sei donne per l’assassino (1964) uccide nel modo più contorto e barocco tutti quelli che hanno diviso il talamo con la protagonista. Una tizia viene sfigurata con l’olio bollente, a un’altra viene cavato un occhio col filo spinato, un altro ancora è ammazzato a colpi di pugnale ed evirato dinnanzi alla prostituta con cui si sta esibendo in un gioco erotico. La polizia non esiste, non indaga, non scopre nulla. La Gerini si accorge dei misfatti solo al terzo delitto, e quando questo avviene tenta disperatamente di mettersi in contatto con l’ultimo dei suoi amanti, Stefan, per avvisarlo che è in pericolo (perché giustamente lei non lo è, visto che non si preoccupa mai della propria incolumità). Lo cerca, non lo trova. Un giorno fa jogging al parco, e Stefan la ferma. Lei si si gira e gli chiede con aria piccata che diamine voglia, e l’uomo se ne va via triste e sconsolato. Ma che senso ha? L’hai cercato con disperazione e adesso lo scacci?! Tulpa procede su questo tono allucinato, lisergico, fatto di suggestioni che non portano mai a nulla, e che complicano il disegno generale anziché chiarirlo e concluderlo degnamente. La morte è ingigantita, bizzarra, piena di fronzoli rococò e cascami di imbarazzante prolissità, e oltre a quella soltanto un Placido sottotono e annoiato, dialoghi folli e ripetitivi, circostanze improbabili se non del tutto idiote (le ragazze inseguite dall’assassino corrono tutte coi tacchi, dalla prima all’ultima). Il risultato è allora un’orchestra impazzita, con un direttore ubriaco, in cui ogni strumento suona per i cavoli suoi, ma che alla fine riesce persino a deliziarti per l’assurdità della situazione. E a proposito di musica, l’accompagnamento del film è stato composto e supervisionato dallo stesso regista. Chi scrive non ha mai ascoltato un brano dei Tiromancino, e continua a tenersene a debita distanza. Eppure, malgrado tutto, Tulpa è divertentissimo nella sua sgangherata comicità, è ilare quando vorrebbe essere pretestuosamente serioso, e severo nei momenti più spensierati. Un applauso riesce a strappartelo, una risata beffarda anche, una visione la merita senza dubbio. Non si svela chi è l’assassino, ma tanto poteva essere il gelataio all’angolo che non avrebbe fatto alcuna differenza. Di questo Joe Dante, che ha pubblicamente encomiato Zampaglione nel corso di un recente festival madrileno, non sembra essersi accorto, ma d’altronde gli americani hanno almeno un nobile precedente in Venerdì 13: chi l’avrebbe mai detto che il colpevole fosse la madre del piccolo Jason, sbucata dal nulla a cinque minuti dai titoli di coda? E chi l’avrebbe mai detto che il buon Federico ci avrebbe riservato un ennesimo tiro mancino?
Marco Marchetti
Tulpa
Regia: Federico Zampaglione. Sceneggiatura: Federico Zampaglione, Dardano Sacchetti, Giacomo Gensini. Fotografia: Giuseppe Maio. Montaggio: Marco Spoletini. Musica: Federico Zampaglione, Andrea Moscianese, Francesco Zampaglione. Interpreti: Claudia Gerini, Michele Placido, Nuot Arquint, Michela Cescon. Origine: Italia. Durata: 82 min.