Imbevuto fino ai capelli di greggio, Jett Rink alza lo sguardo verso il getto scuro e caldo che la terra eiacula nel cielo del Texas. Il gigante (Giant, George Stevens, 1956) è una summa di tanti altri film, prima e dopo, che esaltano la passione, il delirio, la furia estrattiva del complesso industriale nordamericano.
E giganti sono anche i nuovi (vecchissimi) tecno-predatori che sostengono l’attuale inquilino o, forse peggio, proprietario della cosiddetta Casa Bianca, che abbracciano calorosamente l’affare delle trivelle e del fracking, l’eruzione dei propri pozzi e il veto imperativo su tutti gli altri. Drill, baby, drill!, finché non resterà nemmeno una goccia del fossile millenario, oh fossili dai musi di selce e dai ricuciti capelloni arancioni.
I magnati del petrolio, dai Rockefeller ai Mellon, hanno sempre aleggiato intorno al potere politico, ma a volte si trovano proprio al vertice, a cominciare da Truman, passando per i Bush, fino ad arrivare all’imperatore pluridecreto dei nostri dolori. La loro specialità storica, attraverso attacchi, falsità e negazioni a raffica: sigillare le frontiere interne mentre continuano ad espandere quelle esterne. Guardate il biopic di Ali Abbasi, che eviscera lo spietato credo trumpista instillato dall’avvocato newyorkese Roy Cohn. Il mondo come un immenso tavolo di contrattazioni opportunistiche; né soci né alleati: solo clienti circostanziali da ingannare, spremere, sconfiggere senza palliativi.
L’ultima fatica di Scorsese (Killers of the Flower Moon, 2023) è stata l’adattamento del saggio Gli assassini della Terra Rossa. Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell’FBI, che svela il saccheggio della tribù Osage dell’Oklahoma, confinata in una terra brulla che però nascondeva ingenti ricchezze in profondità. Ma la tradizione del western venato di lucilina è lunga. Ne II terrore del Texas (Terror in a Texas Town, Joseph H. Lewis, 1958), Dalton Trumbo incita alla ribellione contro l’usurpazione delle terre petrolifere: un immigrato, tra l’altro, combatterà il boss locale e la sua protesi pistolera con un arpione proveniente dal Mare del Nord. A volte una compagnia rapace arriva ad assediare, manu militari, il giacimento petrolifero rivale: I duri di Oklahoma (Oklahoma crude, Stanley Kramer, 1973), altre volte assistiamo all’ascesa di uno di questi assi del petrodollaro: Il petroliere (There will be blood, 2007), ambientato in California, è la lettura che Paul Thomas Anderson fa di un romanzo di Upton Sinclair, il socializzante Oil!, con un rosario di aziende corrotte, pure sanguinose, che forgiano il tycoon e lo riducono a una solitudine spietata.
Non mancano dei film epici che esaltano la frenesia dei pionieri, come quella storia di amicizia altalenante tra due magnati sbucati dal nulla che si contendono una donna e si accaparrano il mercato dell’oro nero: La febbre del petrolio (Boom Town, Jack Conway, 1940) vede anche la partecipazione di un buffo Spencer Tracy che prende in giro apertamente le orecchie a sventola di Clark Gable, mentre Hedy Lamarr nasconde il suo fare intelligente dietro una maschera da femme fatale.
Ma tutta questa presunta grandiosità crolla quando il cinema esplora la torbida lotta per il potere energetico globale. In tempi di feroce globalizzazione, Syriana (Stephen Gaghan, 2005) aveva già annunciato lo scontro di interessi geostrategici – yankee, cinesi, russi, mediorientali – che possono far scoppiare la scintilla nel Golfo Persico o in una qualsiasi delle ex repubbliche sovietiche.
Disastro non soltanto politico; anche e soprattutto ambientale. Se Gasland (Josh Fox, 2010) denunciava la contaminazione delle acque della Pennsylvania dovuta alla fratturazione idraulica per estrarre gas di scisto o da argille, Inferno sull’oceano (Deepwater Horizon, Peter Berg, 2016) ricostruisce l’esplosione che distrusse la piattaforma mobile Deepwater Horizon, in mezzo al Golfo del Messico (ripeto: Messico), mentre stava perforando il pozzo Macondo, provocando una fuoriuscita storica di migliaia di tonnellate. Senza dimenticare il campanello d’allarme fatto suonare da L’alba del giorno dopo (The day after tomorrow, Roland Emmerich, 2004), una temibile glaciazione dell’emisfero settentrionale, effetto del riscaldamento accelerato causato dalla bruciatura di combustibili fossili, che innesca una migrazione climatica di massa, inversamente illegale, dagli Stati Uniti al Messico…
Qui entreremmo nel fertile cinema dei disastri, variante apocalittica, che attinge parecchio dall’agognato magma nero. Chiudo invece con un documentario, una riflessione amara che ci porta lontano anni luce dalla febbre estrattivista sponsorizzata dall’orco repubblicano: Una scomoda verità (An inconvenient truth, Davis Guggenheim, 2005) raccoglieva la crociata verde di Al Gore, un ambientalista a Washington DC!, che con supporto scientifico mostrava i rischi di un collasso antropico, forse ancora reversibile, e metteva in guardia sul dopo, una volta raggiunto il sempre imminente picco di Hubbert.
José Joaquín Beeme