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Trento Film Festival 2024: un bilancio

A qualche settimana dalla conclusione del 72° Trento Film Festival, torniamo a fare un bilancio dell’edizione della storica, e ancora più importante, rassegna di cinema dedicato alla montagna. Una manifestazione che da quest’anno ha affidato la programmazione cinematografica al varesino Mauro Gervasini, senza però modificare troppo l’impostazione consolidata negli anni e mantenendo le sezioni e i premi principali. La Genziana d’oro al miglior film che è andata alla Francia, al documentario Un pasteur dell’esordiente Louis Hanquet, che ha seguito per due anni il trentenne pastore Felix che porta le sue greggi al pascolo sulle Alpi meridionali francesi. È l’inizio è d’estate (del 2021, si deduce dalle notizie che provengono dalla radio) e il bestiame è in alta quota: arrivano notizie della presenza di lupi, così cresce la paura, intanto avvengono attacchi ad altri greggi e infine al suo. C’è anche l’erba che cambia con il cambiamento climatico, il pastore pensa a ridurre di numero il gregge (sulle duemila pecore), pensano in termini di rispetto dell’ambiente e della montagna, a non sfruttarla troppo intensamente. In autunno il gregge scende a valle, ma resta al pascolo, Felix e la sua famiglia tengono alla pastorizia, non intendono tenere le bestie nella stalla. L’anno successivo risalgono di nuovo all’alpeggio.
Hanquet segue e osserva la vita senza bisogno di dire o spiegare troppe cose, solo pochi dialoghi esplicitano le questioni. Il regista mostra le tante difficoltà dei pastori e della pratica dell’alpeggio, anche nuove dovute ai mutamenti recenti, e pure le rinunce, ma rende bene la grande passione che spinge le persone a continuare in un’attività molto impegnativa. Tra i tanti momenti da evidenziare, per comprendere la durezza della situazione e la cura con cui Felix lavora, c’è il rivestire un agnellino della pelle di un neonato morto per far sì che la pecora rimasta senza figlio allatti l’altro. Per esplorare anche la dimensione più intima e personale del pastore, c’è la toccante lettura di un brano di Pessoa dedicato al padre.

Ambientazione simile per il vincitore della Genziana d’oro al miglior film di alpinismo, popolazioni e vita di montagna – Premio Cai, ovvero Le fils du chasseur della svizzera Juliette Riccaboni.
A Sion il ventiseienne Samir comunica agli amici che andrà per qualche giorno a caccia con il padre in montagna. Per il gruppo di giovani cresciuti nella cittadina romanda sembra una novità curiosa e una pratica desueta. Il giovane spiega agli altri come funziona e soprattutto che non potrà sparare, poiché non ha superato l’esame, ma solo accompagnare. Il protagonista vive con la madre di origine marocchina, mantenendo usanze del Magreb (si porta anche musica araba in montagna), mentre vorrebbe ricostruire un rapporto con il padre, che ha frequentato molto poco, e in questo sta una delle ragioni dell’escursione. Il documentario mostra la vita della montagna (gli imprevisti, la neve, i cicli della natura, anche qui ci sono i lupi, non ben visti dai cacciatori come dai pastori) e la differenza con la città. È anche un film di ricerca esistenziale e di identità, dove è centrale il rapporto tra generazioni, oltre a quello tra pari grado.
Il tema lo avvicina a La bete intime – Kindred Beast di Samy Pollet-Villard, che segue da vicino i Marchand, una famiglia di cacciatori sulle Alpi francesi. Gli adulti cacciano e successivamente cucinano un cervo insieme. La ragazzina Jeannette accompagna il padre in una battuta nel bosco, appostati per catturare un altro giovane ungulato e il genitore le spiega le cose, quasi in un’iniziazione. Un piccolo ritratto di un mondo, visto da distanza ravvicinata e senza giudizio. I Marchand cacciano, ma con consapevolezza e dandosi delle limitazioni, almeno così sembra.

Molto bello, di un’altra statura rispetto agli altri lavori, è The Great White Whale dell’australiano Michael Dillon, già Genziana d’oro nel 1980 per From The Ocean To Sky e nel 1993 per Everest – Sea to Summit, che stavolta ha ricevuto la Genziana d’oro come miglior film di esplorazione o avventura – Premio Città di Bolzano e pure il premio Mario Bello del Cai. Il film ricostruisce una spedizione del 1964 che ha il sapore d’altri tempi, in barca dall’Australia a un’isola sperduta nell’oceano Indiano per conquistarne la cima più alta. A guidare i dieci esploratori il capitano Warwick Deacock, respinto una volta dalla montagna innevata a forma di balena che torna per conquistarla come il melvilliano Achab, da cui il titolo. Obiettivo il Mawson Peak a 2750 metri di quota, nell’isola vulcanica Heard, scoperta nel 1853 e diventata australiana nel 1947. Un luogo remoto, selvaggio, spopolato, caratterizzato da condizioni climatiche molto difficili, utilizzata nell’Ottocento per una caccia a foche ed elefanti marini per ricavarci l’olio, fino a portarli quasi all’estinzione. Filo conduttore è John Crick cantautore che fu il più giovane membro della spedizione e racconta e canta le storie vissute a bordo della goletta Patanela, rimessa a nuovo con ingegno e aiuti trovati in maniera creativa. Li aspettava un viaggio avventuroso, filmato da un operatore che era tra loro. Dillon ricostruisce l’incredibile missione tra tanto materiale d’archivio e interviste ai protagonisti come fosse una ballata, aiutato anche dalla musica, con un’epica vecchio stampo e il respiro di Melville e Conrad. È un racconto appassionante a più voci, che mette insieme la navigazione, l’ascensione, l’avventura, la ricostruzione storica, la vicenda umana, un storia di amicizia e di unione (e pure di goliardia) nella difficoltà estrema, per raggiungere un obiettivo comune. Ancora la natura quasi incontaminata di allora, da affrontare con poca tecnica portando agli estremi il rapporto uomo natura e la piccolezza dell’uomo davanti alla forza degli eventi naturali. Un documentario davvero appassionante e avvincente.

Body of a Line

La giuria ha assegnato la Genziana d’argento per il miglior contributo tecnico-artistico al corto animato Body of a Line di Henna Taylor e quella per il miglior cortometraggio a Postcards from the Verge di Natalia Koniarz, con una menzione speciale a Silent Panorama di Nicolas Piret.
Postcards From The Verge è la vicenda, caratterizzata da belle immagini e un suono molto curato, di una coppia di giovani polacchi che percorrono le Ande in bicicletta dormendo in tenda. Devono affrontare difficoltà per attraversare i confini, continue intemperie (nebbia, pioggia, grandine, freddo) e rischiano di perdere la strada. E, seppure parlino anche di avere figli, litigano sempre di più. In particolare l’uomo, che telefona a madre e padre che stanno divorziando, è turbato dalla situazione e segnato dai litigi a cui ha assistito per anni.
È molto originale l’animazione Silent Panorama, disegnata a carboncino su un unico foglio, le cui diverse porzioni prendono vita via via, mostrando come escursionisti, animali selvatici, boscaioli e mezzi di trasporto condividano quasi gli stessi luoghi. Pure in questo caso ha grande importanza il sonoro.
Premio della Giuria al corto Diciassette dello svizzero Thomas Horat, un documentario in parte dal vero e in parte animato, con la voce narrante della staffetta partigiana Antonietta Chiovini che ricorda e ripercorre gli eventi. A 17 anni diventò antifascista, grazie a un prete che le spiegò cosa fosse il fascismo, e poi staffetta, accompagnando gli ebrei italiani a Intragna per fuggire in Svizzera e vedendosela brutta quando si trovò a Laveno con un’arma nella valigia. Un lavoro importante anche come testimonianza sempre attuale.

Flavio Paolucci

Proiezione speciale per il documentario Flavio Paolucci – Da Guelmim a Biasca del ticinese Villi Hermann, già presentato nella sezione Panorama delle 59° Giornate di Soletta. Per il grande cineasta elvetico (da San Gottardo a Bankomatt) i ritratti d’artista (spesso fotografi) sono una delle specialità della casa. Stavolta si concentra sullo scultore e pittore della Val di Blenio, osservandolo nel suo laboratorio (mentre crea una nuova opera e non vuole persone intorno, costringendo il regista a una soluzione ingegnosa) e lo segue nelle camminate nel bosco intorno al paese che lo ispirano continuamente. “Fin da bambino sono stato un osservatore della natura” dice, “Quasi tutto nasce dalla natura”, mentre impiega rami o pietre per i suoi lavori. E c’è pure il deserto marocchino di Guelmim che fu fondamentale nella formazione artistica. In più ci sono l’impegno e i lavori politici: le opere dedicate alla guerra in Vietnam o alla morte di Pasolini e il monumento sul Monte Ceneri in memoria degli antifascisti ticinesi morti nella guerra di Spagna. Hermann filma opere dall’ideazione alla fusione e pure quelle distrutte o trasformate da un artista eclettico e imprevedibile, un artigiano che fa tutto da solo a 90 anni d’età.
Bello pure Bambini di frontiera del roveretano Emanuele Gerosa, conosciuto soprattutto per One More Jump ambientato a Gaza, che ha ricevuto il Premio CinemAMoRe promosso dai festival trentini. Il documentario ripercorre l’esperienza dell’Istituto De Gasperi aperto dal 1957 al 1996 in località Candriai sul monte Bondone proprio sopra Trento per accogliere i figli di famiglie emigrate in Germania e dare loro la possibilità di frequentare le scuole dell’obbligo. Gerosa ha raccolto una decina di testimonianze di ospiti, ora adulti, e maestre, per raccontare l’emigrazione da una prospettiva particolare, dei bambini e ragazzi che restavano in collegio una settimana o dei mesi interi senza vedere i genitori. Esperienze di distacco, di solitudine (molti provenivano dal sud Italia, alcuni trentini), di formazione, di amicizia e anche l’importanza della formazione nonostante le difficoltà.

Nicola Falcinella

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