Between Two Dawns di Selman Nacar, una coproduzione Turchia/Romania/Francia/Spagna, ha vinto il premio come miglior film del 39° Torino Film Festival. Il lungometraggio d’esordio del regista turco è stato scelto tra i 12 in gara dalla giuria presieduta dall’ungherese Ildiko Enyedi (Il mio XX secolo, Corpo e anima, The History of My Wife) e comprendente anche Alessandro Gassmann.
Si è chiuso così un festival tornato dal vivo dopo l’edizione online 2020. Il bilancio non può essere del tutto soddisfacente, per una manifestazione che ormai da diversi anni sta subendo tagli al budget e cambiamenti alla linea artistica che ne stanno mutando l’identità. Evidente, guardando i posti vuoti nelle sale, il calo di spettatori e accreditati, anche se non ci sono ancora numeri ufficiali (dopo il primo fine settimana la stima era di una flessione del 25% rispetto al 2019). Tra i film il panorama non era esaltante, con titoli già passati in altri festival e spesso in uscita nelle sale: tra questi Sull’isola di Bergman di Mia Hansen-Love, Lingui – Una madre, una figlia di Mahamat-Saleh Haroun, Tromperie di Arnaud Desplechin e Les intranquilles di Joaquim Lafosse.
Pesa anche la scelta di eliminare la retrospettiva, da sempre punto di forza già di Cinema giovani (da Manoel de Oliveira a John Carpenter a Claude Chabrol), segno identitario insieme alla scoperta di nuovi talenti. Non basta a sostituirla la piccola sezione Back to Life con alcuni restauri, recuperi e omaggi, come il gioiellino giapponese Tange Sazen and the Pot worth a Million Ryo di Sadao Yamanaka del 1935. E pure l’omaggio ai bravi libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige (vedi focus) rientra tra le personali che già si facevano. Invece programmati troppi film italiani di livello modesto, che probabilmente non avevano trovato posto in altre rassegne.
Il premio speciale della giuria tra i lungometraggi è andato ex aequo allo spagnolo El planeta di Amalia Ulman (anche vincitore del premio Fipresci della stampa) e all’egiziano Feathers di Omar El Zohairy. La Ulman è regista e protagonista di una commedia strampalata in bianco e nero che ricorda un po’ il cinema di Jim Jarmusch. Siamo a Gijon e Leonor è tornata a vivere con la madre dopo la morte del padre: entrambe non lavorano e dovranno lasciare l’appartamento in cui abitano. Se la madre compie dei furtarelli nei negozi, la figlia, indecisa se restare o andarsene, incontra varie persone tra le quale un giovane cinese che vive a Londra e con il quale trova delle assonanze. Il film si svela a poco a poco, comprende alcuni momenti felici, ma anche tocchi di stile (gli improvvisi fermo immagine sui personaggi) abbastanza superflui.
L’egiziano, già premiato alla Semaine de la Critique di Cannes e che in Italia sarà distribuito da Wanted, ritrae un mondo povero e sporco, usando l’assurdo per far emergere difficoltà e contraddizioni. Una famiglia abita in un palazzo in una grande anonima periferia: con il lavoro del padre non riescono neanche a pagare l’affitto. L’uomo, autoritario e orgoglioso, organizza una festa per il compleanno del figlio maggiore, invitando anche il suo datore di lavoro. Durante lo spettacolo di magia, il prestigiatore fa scomparire il padrone di casa trasformandolo in un pollo, senza riuscire a completare il trucco. Alla moglie non resterà che tenersi in casa il pennuto, curarlo quando si ammala, prendersi le responsabilità di capo famiglia e mandare il figlio più grande a lavorare al posto del padre, senza desistere dal cercare il marito. Un sacco di situazioni improbabili continuano a verificarsi e la donna si ritrova sola in una società che le mette davanti troppi ostacoli.
Meritato il premio di miglior attrice alla coreana Gong Seung-Yeon per Aloners di Hong Seong-Eun, delicato ritratto di una solitudine contemporanea, uno dei lavori più interessanti del concorso. Jina lavora nel call center di una carta di credito, è diligente, è la persona di fiducia della capa, che le affida il compito di formare una nuova impiegata. Intanto la madre è morta, lasciando tutta l’eredità al marito, che si è messo a frequentare la chiesa. È un film esistenzialista, minimalista, con un tocco di assurdo e uno di soprannaturale.
Il riconoscimento di migliore attore è andato a Franz Rogowski per Grosse Freiheit dell’austriaco Sebastian Meise, già premiato a Cannes nella sezione Un certain regard e in diversi altri festival negli ultimi mesi, mentre per la miglior sceneggiatura premio alla francese Sandrine Kiberlain per Une jeune fille qui va bien.
Ignorato dalla giuria l’unico italiano in lizza, il deludente Il muto di Gallura di Matteo Fresi, ambientato in Sardegna a metà ‘800 per raccontare una faida familiare realmente accaduta. Vorrebbe stare tra il dramma in costume (e il melodramma) e il western, invece inserisce sparatorie assortite dentro una rievocazione folkloristica con tocchi esotici, in un continuo cambiare di tono (e le musiche contribuiscono alla confusione) che sfocia nel pasticcio. Un film che ci si sorprende sia finito in concorso, anche in un consesso non entusiasmante. Ci sarebbe stato meglio La svolta di Riccardo Antonaroli, che qualche idea più chiara ce l’ha. Una storia tra la commedia all’italiana (il riferimento a Il sorpasso è evidente dai manifesti nella stanza e dallo sviluppo dei due protagonisti e del loro rapporto, quasi ricalcati su quelli di Gassman e Trintignan) e il poliziesco, con l’esuberante e vitale ladro Jack che si nasconde nell’appartamento dello studente depresso Ludovico mentre una banda di malviventi lo cerca per tutta la Garbatella. Tra i due si sviluppa un’imprevedibile amicizia, date le differenze, ma il destino è in agguato. Un film con volti giusti e alcuni momenti riusciti, che si fa apprezzare perché non vuole essere altro che quello che è.
Tra gli altri riconoscimenti segnaliamo i premi ai cortometraggi: miglior film il canadese Babatoura di Guillaume Collin e premio speciale al palestinese Night di Ahmad Saleh.
Tra i documentari di TFFDoc / Internazionale.doc, è stato designato vincitore lo spagnolo 918 Gau di Arantza Santesteban Perez con premio speciale al cinese Another Brick on the Wall di Nan Zhang. E in Italiana.doc premi per Rue Garibaldi di Federico Francioni e Commedia all’italiana di Fabrizio Bellomo.
Da ricordare anche il premio Stella della Mole alla carriera a Monica Bellucci, che ha accompagnato Girl in the Fountain di Antongiulio Panizzi dove è chiamata a interpretare Anita Ekberg in un film nel film. Peccato che lo spunto interessante sia poco sviluppato e il film racconti poco sia la diva de La dolce vita sia la Bellucci, una delle poche star odierne davvero conosciute da tutti.
Tra gli italiani fuori gara spicca il documentario C’è un soffio di vita soltanto di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, che si erano rivelati con Et in terra pax. Protagonista è Luciana, 96 anni, ex deportata a Dachau quando era ancora Luciano. All’inizio del 2020 riceve una lettera per partecipare alle commemorazioni per il 75° della liberazione del campo. La trans ha già partecipato tre volte alla cerimonia e andarci è l’unica cosa che ha ancora davvero voglia di fare, peccato che l’arrivo della pandemia costringa a sospendere tutto. Intanto Luciana guida l’auto, parla con la vicina, incontra un’amica, ospita un uomo d’origine magrebina che dormiva per strada e si racconta. Ricorda come si accorse di “non essere normale” da bambino, poi il militare, l’8 settembre, le “marchette”, l’arresto e la deportazione, riuscendo a sopravvivere nonostante la durezza delle condizioni. Dopo la guerra la graduale trasformazione, le tante difficoltà, ma anche una certa accettazione: “sono un intruglio” commenta ora. Un bel ritratto di un personaggio travolgente e indimenticabile, che si apre in maniera sincera e sorprendente tra campi di concentramento e sessualità.
Tra i tanti fuori concorso spiccano Cry Macho di Clint Eastwood (uscito in sala quasi in contemporanea), Un monde di Laura Wandel già visto a Cannes e il bel thriller familiare Der menschliche faktor – Il fattore umano del bolzanino Ronny Trocker, già passato a Berlino. Trafficante di virus di Costanza Quatriglio è tratto dal romanzo autobiografico di Ilaria Capua per costruire un thriller senza tensione, spento e mai incalzante nonostante i temi tra scienza, politica, giornalismo e giustizia. Meglio Quattordici giorni di Ivan Cotroneo, uno dei pochi ambientati dichiaratamente in questi anni di pandemia. Carlotta Natoli e Thomas Trabacchi, coppia anche nella vita, interpretano l’osteopata Marta e l’avvocato Lorenzo che stavano per lasciarsi dopo 14 anni dopo la scoperta della relazione di lui con un’altra donna. Ma Marta è in quarantena e l’uomo non può lasciare l’appartamento per due settimane. Cotroneo azzecca la scelta di raccontare una scena al giorno e di non usare musiche. Il film ha un impianto teatrale ed è molto parlato, e non potrebbe essere altrimenti, e per forza di cose un po’ prevedibile nell’alternare litigi, ripicche, rinfacci e ricordi comuni e momentanei riavvicinamenti. Nell’insieme funziona, grazie anche allo stato di grazia degli interpreti, e non si può che ritrovarsi almeno in alcune delle situazioni. Dal punto di vista registico non è impeccabili e la scelta di fare primi piani molto stretti di lui e inquadrature più larghe di lei risulta incomprensibile e un po’ fastidiosa. Da notare che non ci sia mai la tv accesa e non ci siano notizie dall’esterno e l’unica vista sul mondo sono i dirimpettai sulla terrazza, con la ragazzina che balla da sola e si filma con il telefono per i social.
La sezione Le stanze di Rol dedicata al cinema di genere ha messo in luce alcuni lavori notevoli. Per primo il bel poliziesco hongkonghese Raging Fire di Benny Chan, purtroppo da poco scomparso. L’ispettore Cheung, che aspetta un figlio dalla moglie, non è ben visto dai superiori ed è escluso da un’importante operazione antidroga. Le cose vanno in maniera imprevista e l’agente si ritrova impegnato contro diverse bande, compresa quella composta da ex poliziotti che erano stati in carcere capeggiata dall’irriducibile Ngo. Molto belle le scene d’azione, tra sparatorie, inseguimenti e duelli utilizzando tutte le armi, compreso quel che capita nel cantiere di una chiesa in ristrutturazione. “Le nuove reclute sono conniventi con i criminali” dice Cheung a sottolineare il tono malinconico e crepuscolare del film.
Costruisce una grande tensione basandosi su pochi elementi e a un’ottima scrittura, una messa in scena adeguata e alla presenza magnetica di Alfredo Castro il cileno Immersion, opera prima di Nic Postiglione. Un uomo in gita in barca sul lago con le figlie non dà aiuto a due giovani che cercano il fratello. Un film sul potere, la violenza, il controllo, tirato come un elastico pronto a liberare tutta l’energia.
Horror psicologico spagnolo è La abuela di Placo Plaza, uno dei creatori di Rec. Susana è una giovane modella a Parigi che sta forse per avere la grande occasione. La nonna, l’unica parente rimastale, ha però avuto un’emorragia cerebrale e deve tornare a Madrid per assisterla. Una volta che l’anziana è uscita dall’ospedale, la ragazza cerca una soluzione ma continuano a verificarsi fatti strani. La nonna non parla, ma nella casa è un susseguirsi di eventi che sfuggono alla comprensione e Susana crede di impazzire. Peccato che si perda un po’ verso la fine, ma resta un thriller horror con un suo perché. Da notare anche la brava protagonista Almudena Amor, la rivelazione spagnola dell’anno, anche nel cast de Il capo perfetto di Fernando de Aranoa.
da Torino, Nicola Falcinella