Ci sono tre film contenuti in Timbuktu di Abderrahmane Sissako. Il primo scorre sullo schermo, introdotto da una gazzella che fugge impaurita in una savana arida quasi assorbita dal deserto; il secondo si intravede per un momento e frattura il testo filmico del primo, preparando in prossimità della fine il dramma conclusivo; il terzo invece è totalmente fuori campo, ma preme con urgenza per farsi perlomeno sfondo: è il Mali spettacolare, offeso dalle milizie armate di un Islam estremo ma non marginale, intransigente e fondamentalista (parola talmente incrostata dal sangue, da rendere vano ogni tentativo di conversione semantica che non contempli l’ideologia), in dialettica con i principi coranici che supportano migliaia di piccole e pacifiche comunità musulmane d’Africa sahariana e sub-sahariana. Se Sissako avesse per qualche secondo montato un obiettivo a focale lunghissima, diciamo un tele spinto 1000 mm, avrebbe probabilmente squarciato la profondità, oltre le dune, per rivelare un paese nel caos, soprattutto nel nord dove da quasi tre anni ci sono scontri, e dove in nome della jihad (altra parola che chiede giustizia) si legittima l’occupazione di terre, la sottomissione di uomini e donne, la distruzione di mausolei dichiarati patrimonio Unesco, proprio a Timbuktu (città per lungo tempo ritenuta soltanto un mito).
Il regista ha però scelto una strada diversa, raccontando, ai confini del gioiello del Mali, gli effetti di quel caos, identificando il dettaglio che potesse evocare il tutto. Timbuktu, città che pare edificata dal sole, è snodo strategico tra settentrione e meridione del paese, popolato da tribù che dall’Islam hanno distillato la sostanza, senza rinunciare alla libertà. L’arrivo di un gruppo di uomini armati fino ai denti, sconvolge le abitudini e le relazioni umane, sulla base di una discutibile interpretazione della Legge, come spiega ad un certo punto la guida spirituale del villaggio al leader dei miliziani che occupano il territorio. Agli abitanti vengono imposti una serie di divieti assurdi in lingua araba e in francese: non è permesso cantare, ballare, fumare, giocare a calcio (mentre gli occupanti ipocritamente fumano di nascosto e parlano di Zidane); alle donne vengono imposte calzature integrali e guanti neri.
Kidane e la moglie Satima, con la loro giovane figlia Toya e Issan, un pastore di dodici anni che si occupa delle loro mucche, sono riusciti a ricreare sotto la tenda in cui vivono, distanti dal centro abitato, un’oasi di pace. Nonostante Satima sia oggetto delle attenzioni di uno jihadista, nulla scalfisce il quieto vivere della famiglia, fino a quando Gps, la mucca preferita da Toya sfugge al controllo di Issan, attraversa il fiume che miracolosamente taglia in due il deserto, inciampando nelle reti del pescatore Amadou, che uccide l’animale. La resa dei conti tra Kidane e Amadou causa la morte accidentale del pescatore, condannando l’uomo alla sentenza senza appello di una corte improvvisata.
Sissako, se evita di affrescare con toni epici la resistenza di un paese il cui presente è quanto mai incerto, non cade neanche nella trappola del racconto morale di tante fiabe africane da esportazione, preferendo scommettere su una scrittura in versi, un canto poetico illuminato dalla bellezza dei paesaggi, dall’incanto del fiume, in rima baciata con gli afflati vitali di un popolo che non vuole piegarsi di fronte all’incomprensibile natura di norme insensate: ragazzi e ragazze cantano e suonano infischiandosene della più che probabile ritorsione, un gruppo di bambini gioca un’indimenticabile partita a calcio senza pallone, una donna si pavoneggia sfidando gli sguardi degli uomini protetta dalla sua follia; sprazzi di vita che la musica di Amine Bouhafa rende lirici e, per contrapposizione alla violenta applicazione della Sharia, tragici, ultime espressioni di civiltà prima dell’annichilimento. La tenda di Kidane è per questo il segno caldo di un paradiso (perduto) violentato dall’ignoranza, un baluardo davvero resistente di una conoscenza che sembra inabissata nelle maglie (ora) indecifrabili di tutte le sacre scritture prodotte dall’uomo.
Che di questo avrebbe raccontato il regista si era capito già in apertura, perché la gazzella impaurita tentava di schivare colpi di Kalašnikov, sparati da una camionetta da “uomini di legge”, veri e propri sfregi al bello. “Non ucciderla, sfiancala” – e ti immagini l’Africa martoriata da decenni di guerre intestine, carestie, sfruttamento. Dei feticci in legno vengono crivellati come fossero sagome in un poligono di tiro. Una donna che lavora pulendo il pesce non può accettare di doverlo fare con i guanti, grida, alza la testa, “tagliatemi le mani”. Non viene uccisa. Sarà sfiancata e piegata. Una ragazzina è costretta a sposare un miliziano, nonostante l’opposizione della madre e del capo villaggio, in assenza del padre lontano, forse in guerra. Un uomo – afferma uno jihadista – non è colpevole se assicura un futuro dignitoso a una ragazza ancora sola. Anche lei sfiancata e piegata. La macchina da presa a 50 centimetri da terra segue in panoramica da destra a sinistra l’attraversamento di uomini armati nei locali di una moschea: la profanazione del tempio. Una delle inquadrature più belle e pregne di significato di tutto il film. Ancora una volta la poesia bisticcia con la crudeltà del reale, amplificandone la tragicità.
Il metodo di Sissoko diviene un principio estetico che scuote pupille e cervello. Quando il film, strutturato sull’alternanza tra la storia di Kidane e le vicende del villaggio, arriva alla convergenza delle sue tracce narrative con il processo farsa al pastore, il regista inganna di nuovo l’occhio con un’altra splendida e terribile immagine: un uomo e una donna sono sepolti fino al collo in attesa della lapidazione, una pietra colpisce lei che perde i sensi. Stacco. L’urlo del marito viene soffocato in una zona invisibile, anzi in-guardabile. E’ il secondo film di cui si accennava in apertura, una frattura narrativa che rinvia alla lapidazione che nel 2012 mise fine alle vite di un uomo e una donna non sposati, puniti per aver messo al mondo figli fuori dal matrimonio, e che ispirò il regista. Una scena brevissima, non annunciata e non spiegata dopo, che però passa veloce fuori dallo schermo e percorre lo spettatore, adagiandosi come un demone nelle coscienze.
Cos’è Timbuktu allora, dov’è il Mali oggi? Chiediamoci se il cinema africano una volta tanto arriva in sala con tutta la potenza espressiva di un maestro per il valore alto del racconto e dell’estetica, o per l’incapacità dell’informazione di massa di fare cronaca oltre il confine “occidentale”, oppure perché il film diventa, mentre ne scriviamo, la messa in scena involontaria di tutte le nostre paure o il rafforzamento razionale della convinzione di essere nel giusto mentre, fuori, qualcosa sta andando storto.
Tentando una sintesi tra ciò che vediamo sullo schermo, ciò che rimane evocato e fuori campo, ciò che scivola da un racconto confinante, resta forte l’angoscia per il destino di Toya, che corre come la gazzella, dopo la morte dei genitori, sola e disperata; e anche Issan (che pare arrivato da un film di Amir Naderi), stracolmo di sensi di colpa per aver perso Gps, anche lui di corsa tra le dune: due traiettorie che non riescono a incontrarsi e che finiranno per perdersi nel buio dei titoli di coda.
Alessandro Leone
Timbuktu
Regia: Abderrahmane Sissako. Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako, Kessen Tall. Fotografia: Sofiane El Fani. Montaggio: Nadia Ben Rachid. Musiche: Amine Bouhafa. Interpreti: Ibrahim Ahmed aka Pino, Toulou Kiki, Abel Jafri, Layla Walet Mohamed, Mehdi AG Mohamed, Fatoumata Diawara. Origine: Francia/Mauritania, 2014. Durata: 97′.