Un’astronave aliena è scesa sulla Terra. Le Nazioni Unite e gli organismi istituzionali dei maggiori paesi del mondo sono col fiato sospeso. Chi sono questi misteriosi visitatori? cosa vogliono da noi? hanno intenzioni ostili? vogliono rimpiazzarci con la loro tecnologia superiore e ridurci in schiavitù, così come i popoli della Terra, nella storia, hanno reso schiavi i nativi delle regioni del mondo conquistate? Avvalendosi di autentici scienziati della NASA, biologi della COSPAR, psicologi clinici del SETI, diplomatici delle Nazioni Unite, militari della NATO, sociologi, studiosi del Diritto e persino di teologi, il talentuoso regista danese Michael Madsen ricostruisce l’ipotetico scenario nell’imminenza del “primo contatto”, servendosi di un linguaggio tipicamente televisivo, in cui la strutturazione del documentario tradizionale, si alterna a frammenti di vita quotidiana di lynchana – e perché no, belatarriana – memoria, all’interno dei quali, apparentemente dissociati dal contesto delle prolisse interviste, persone e cose si muovono quasi impercettibilmente, intrappolati nei lunghi piani sequenza, nelle carrellate laterali e nelle numerose riprese in bullet time, così da convertire la rigida impostazione documentaristica classica in veri e propri «tempi riflessivi», accrescendo quel senso di sospensione e inquietudine che l’attesa dell’incontro con l’ignoto visitatore venuto dallo spazio già di suo produce. A tale pseudo-dialogo tra convenzionalismo e immagini oniriche fa da contrappunto, teatro nel teatro e unica vera traccia narrativa del film, la missione dell’ingegnere spaziale Chris Welch, mandato dalle Nazioni Unite a esplorare l’astronave aliena e a raccontare via radio, in presa diretta, lo storico avvenimento. Chiuso nella sua tripla tuta ermetica, Welch diventa protagonista di una vera e propria esperienza mistica che lo porta ad attraversare barriere spazio temporali, a penetrare le più sottili trame neurali, sperimentando ambivalenze emotive sconosciute, in un susseguirsi di visioni allucinate in cui immensi scaffali ricolmi di libri si fondono con imponenti alberi di fitte foreste nordiche, generando un vortice di location incongruenti che si risolve in un oscuro, fantascientifico vuoto kubrickiano.
Un film a tratti claustrofobico questo The Visit, durante il quale l’ansia, mista a ostilità, per l’imminente incontro con l’invisibile e ineffabile alieno lascia spazio a un pervasivo, intimo senso di sgomento, di solitudine, di voglia di pianto: un pianto che si perde nella notte dei tempi, a metà tra il vagito disorientato del neonato che viene alla luce e il sollievo consolatorio della lacrima senile, che stilla dal rimpianto di un avvenimento lontano di cui sono ormai sfumati i contorni.
The Visit è molto di più di un docufiction: è un’opera letteraria ad ampio respiro, che concilia interpretazioni essoteriche, improntate sugli interrogativi di sempre – l’infinità dello spazio, la vita su altri pianeti – con riflessioni più recondite, in cui l’incontro con l’Altro finisce per scatenare dubbi atavici di fronte ai quali non solo si prende atto della miseria dei concetti di appartenenza, radice culturale o indissolubilità del matrimonio, ma si mettono altresì in discussione i principi stessi di comprensione della realtà, del sé, l’unicità della genesi biologica, la certezza di un significato ultimo delle cose e degli eventi. Eppure, nonostante l’inquietudine sottesa a tali argomenti, il film di Madsen lascia trasparire una fioca luce di speranza: quella stessa luce che ha spinto l’umanità, fin dai suoi primordi, a esplorare l’ignoto, a spingersi oltre i propri mezzi tecnici e di comprensione, attratta da quella stessa paradossale inquietudine generante il pregiudizio, la staticità, il nazionalismo, la paura nei confronti dello straniero, del diverso, della follia. Entrando nella navicella aliena, Welch si ritrova così nella paradossale condizione di soggetto esplorato ed esplorante; e mentre scienziati e diplomatici si perdono in interrogativi morali, giuridici e scientifici atti a gettare un possibile ponte tra le due civiltà prossime al contatto, Welch si trova già oltre, immerso in un marasma di ambivalenze emotive che lo spingono a superare i confini illusori dell’identità. La domanda che sorge spontanea, allora, è: chi sono davvero gli alieni? Chi stiamo davvero cercando, noi uomini, quando puntiamo i nostri raditelescopi Effenberg o i nostri Voyager verso lo spazio infinito? La verità è che, nonostante le nostre chiusure, o forse proprio a cagione di esse, siamo individui aperti all’ignoto, al mistero; siamo incoscienti, proprio come lo sono stati prima di noi gli esploratori transoceanici del Seicento o gli «schiumatori dei mari» della Compagnia delle Indie: schizofrenici giocolieri dell’identità, alla disperata ricerca di qualcosa o di qualcuno cui togliere il velo e che il più delle volte finiremo per violentare e tradire. Ecce homo.
Manuel Farina
The Visit – Un incontro ravvicinato
Regia e sceneggiatura: Michael Madsen Garland. Fotografia Heikki Färm. Montaggio: Nathan Nugent, Stefan Sundlöf. Interpreti: Jacques Arnould, Paul Beaver, Dr. Sheryl Bishop, Lord Boyce, Dr. Ernst Fasan Niklas Hedman , Christopher McKay, Mazlan Othman, John Rummel, Vickie Sheriff, Janos Tisovsky, Doug Vakoch , Chris Welch. Origine: Danimarca, 2015. Durata: 90’.
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