John Hawkes è uno degli attori più interessanti in circolazione. Versatile, sempre intenso, capace di calarsi nei ruoli con apparente semplicità, passando dallo “schema” recitativo imposto da Miranda July in Me and You and everyone we know all’immobilità del corpo in The Sessions. La sfida proposta da Ben Lewin non era per niente facile: interpretare il giornalista e scrittore Mark O’Brien, costretto precocemente dalla poliomelite alla tetraplegia e a dipendere da un polmone d’acciaio. Per di più sulla scia di due mostri sacri che immobili in un letto hanno dato dimostrazione di qualità recitative straordinarie: Javier Bardem (Mare Dentro) e Mathieu Amalric (Lo scafandro e la farfalla).
La vicenda di O’Brian – cattolico praticante, che superato l’ostacolo del dogma religioso decide di ascoltare le pulsioni sessuali e di godere del contatto erotico con una donna, attraversando i diversi stadi della scoperta del proprio corpo nonostante la paralisi che lo intrappola – tocca (anche visivamente) un argomento poco praticato nel cinema: sesso e disabilità.
Tutto ciò che in potenza lasciava intravedere il personaggio di Ramòn in Mare dentro (altra storia vera portata su grande schermo), seduttore e amante nello spazio illusorio dell’immaginazione quando anche le donne che ne frequentavano il capezzale lo amavano e lo sfioravano, adesso diventa motore narrativo in The Sessions. Lewin però evita di sprofondare nelle sabbie mobili, di finire cioè nel terreno viscidissimo dell’esibizione spettacolare di un corpo offeso e marginalizzato dalla malattia (e dal senso comune che teoricamente escluderebbe la possibilità di esprimere un erotismo invece naturale): per di più se questo corpo, contorcendosi e provando dolori immaginari, viene esplorato da una donna non più giovanissima (splendida e brava Helen Hunt) che lo fa per professione, ma con finalità legate alla ricerca “medica” (il ché le fa dire di non essere una prostituta). Del resto la sua prima occupazione sono la casa, il figlio e un marito che per mestiere pensa, senza essere davvero un filosofo. Questa materia basterebbe a moltiplicare i rischi di oscillazioni pericolose tra retorica buonista e la messa in scena compiaciuta di un tabù. Niente di tutto questo. Le stazioni del sesso diventano le stazioni dell’affettività, poi la conquista dell’essere corpo nonostante il corpo si neghi, e inchiodi l’anima all’orizzonte del letto, togliendo il piacere dell’ombra portata sul mondo (che invece rimane schiacciata sotto il peso della carne). Infine l’amore, dopo aver trovato la pace nell’esperienza esaltante di un orgasmo condiviso dopo un’educazione alla penetrazione (forse troppo veloce, troppo dettata dai tempi del racconto cinematografico). Privo di guizzi di regia, senza eccedere nella ricerca di dialoghi che marchino a fuoco il senso della vita e la presenza della morte che incombe su Mark, il film cresce lentamente quanto più il protagonista da vittima designata e destinata al rifiuto di qualsiasi contatto umano, scopre di poter percorrere una strada aperta (complice un prete, Willia, Macy, che non disdegna incoraggiamenti) con la giusta dose di ironia e senza rinunciare alla propria vena poetica. La morale cattolica, debole velo dietro cui nascondersi, si frantuma a vantaggio di una relazione con un Dio comprensivo (per interposto prete) che probabilmente osserva, come lo spettatore in sala, non la realizzazione dell’ultimo desiderio di un uomo morente, ma l’inizio di un percorso di rinnovamento che riconduce dritto verso la vita.
Alessandro Leone
The Sessions
Regia e sceneggiatura: Ben Lewin. Fotografia: Geoffrey Simpson. Montaggio: Lisa Bromwell. Interpreti: Helen Hunt, John Hawkes, William H. Macy. Origine: Usa, 2012. Durata: 95′.