Scanio Libertetti ripara le cose. Lo fa per vivere, è il suo mestiere. Lo fa con lentezza disarmante, ma anche con amorevole cura. Quel tipo di cura che si porta addosso chi ha imparato a riconoscere l’importanza dei dettagli. Non c’è molto altro, nella vita di Scanio. C’è una famiglia monopartentale e un gruppo di amici, pochi, che passano il tempo a dirgli che così com’è fatto non va bene. Che dovrebbe essere diverso e comportarsi in maniera diversa. Come loro, per esempio. C’è anche un catctus, grande abbastanza da meritarsi un nome, con cui dividere l’appartamento preso in affitto. E dentro quell’appartamento, Scanio ripara le cose. Macchine del caffè, per lo più. Potrebbe andare avanti così per sempre. Poi un giorno incontra Helena.
Paolo Mitton arriva al cinema seguendo un percorso complicato. Anche lui studia ingegneria, come Scanio, ma a differenza del suo personaggio riesce a laurearsi. Vive in Belgio e a Parigi, frequenta qualche corso di cinema in Spagna e si trasferisce a Londra, a fare gli effetti speciali per Harry Potter. Quando ha deciso di fermarsi per un po’ non aveva ancora quarant’anni, ma aveva già girato mezza Europa. Eppure per il suo primo film torna in Italia, piazzando la macchina da presa nel mezzo della provincia piemontese, alla ricerca di un personaggio tutto chiuso nel proprio mondo, quasi immobile.
A dispetto della realtà biografica, The repairman è un film personale. Nel senso che prova a chinarsi su di un singolo uomo per raccontarne il rapporto con il mondo. Lo fa per via di differenze più che per via di similitudini. E’ personale perché queste differenze, questi bizzarri tratti distintivi, sono trattati con indulgenza, quasi con cura. Quella stessa cura di cui sopra, che Scanio dedica agli oggetti rotti. Non pare allora troppo strano che il film porti in esergo una frase che suona più o meno così: Tratto da una storia vera. O almeno, a me è successo.
Scanio è un personaggio in conflitto con il mondo. E’ una cosa evidente fin da subito, fin dalla prima azione che compie: suona un campanello e subito qualcuno gli dice che non doveva suonare il campanello, che c’era un cartello. Scanio, non hai letto il cartello? Ogni suo gesto è fuori posto, ogni sua intenzione inadeguata. Come per i grandi comici del muto, Scanio è portatore di una distanza inconciliabile fra sé e il mondo. Da questa incomprensione, da questa distanza, nasce quel senso del comico che, come in sottotraccia, percorre tutto il film. Basta poco, però, per accorgersi che Scanio non è il solo a non saper andare a tempo con il reale. Tutti intorno a lui, dagli amici alla fidanzata, sono alla ricerca di un metodo che funzioni, di un modo per essere felici. La vera differenza tra loro e Scanio è che Scanio ha imparato ad accettare gli improvvisi vuoti di senso della vita. Come succede per gli oggetti, sa che tutto si può rompere. Anche di colpo. Se riesci ad accettare una cosa così, puoi anche trovare un modo per imparare ad amare il gesto del riparare. Questa consapevolezza non può fare di Scanio un vincitore, non nel senso comune del termine almeno, ma lo esclude da qualsiasi sconfitta, ponendolo di fatto fuori dalla partita. E’ un’intuizione fortunata, questa di Mitton. Che gli mette tra le mani un personaggio fuori dal tempo eppure modernissimo.
Per questo è davvero un peccato che non sia riuscito a farlo evolvere come avrebbe meritato. Come cristallizzato, Scanio non riesce a staccarsi dalla sua condizione iniziale. Estraneo a qualsivoglia senso di rivalsa, attraversa gli eventi con lo stesso passo scoordinato, lasciando ai propri comprimari il compito di dettare la partitura emotiva e narrativa del film. Ma la cosa non può funzionare, non importa cosa accada o quali sentimenti vengano messi in gioco: troppo consapevole della fragilità delle cose, Scanio ha finito per vivere in attesa del momento della rottura. La sua inventiva è perciò tutta tesa a riportare le cose come stanno, mai a cambiarle. L’unico percorso possibile per il film è allora il ritorno al punto di partenza.
Per noi spettatori non sarà stato comunque un viaggio faticoso. Perché se è vero che al termine della vicenda Scanio non avrà fatto esperienza del mondo, noi avremo fatto esperienza di lui. Ce ne andremo insomma divertiti, ma anche consapevoli del fatto che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto portarci un po’ più in là.
Matteo Angaroni
The repairman
Regia: Paolo Mitton. Sceneggiatura: Paolo Mitton, Francesco Scarrone. Fotografia: David Rom. Montaggio: Matteo Paolini Enrico Giovannone.
Interpreti: Daniele Savoca, Hannan Croft. Origine: Gran Bretagna/Italia, 2013. Durata: 89′.