Una pellicola da non perdere, una favola realista che porta il marchio inconfondibile di Ken Loach. È The Old Oak, il film più commovente del concorso del 76° Festival di Cannes, sebbene lo scorso maggio sia uscito senza premi dalla rassegna francese. L’irredimibile cineasta scozzese ha già ben due Palme d’oro in bacheca, vinte per Il vento che accarezza l’erba e Io, Daniel Blake.
Stavolta siamo nel 2016, in una ex cittadina mineraria nel nord dell’Inghilterra, fatta di case in mattoni disposte in fila lungo le strade, una delle aree tradizionalmente laburiste che pochi mesi dopo avrebbe votato a favore della Brexit. Qui si ferma un autobus carico di profughi siriani, accolti dalle proteste di un gruppo di residenti che, nella foga della protesta, buttano per terra la macchina fotografica della giovane Yara (Ebla Mari). Quest’ultima chiede aiuto a TJ Ballantyne (Dave Turner), sessantenne padrone del pub del titolo, l’unico luogo di ritrovo rimasto nella zona. L’uomo non ha che la compagnia del cane Marra e degli avventori di lunga data, che gli permettono di mantenere l’attività. I clienti, compreso l’amico storico Charlie (Trevor Fox), guardano male la sua disposizione verso i nuovi venuti e iniziano a rumoreggiare, protestare e offendere. Qui entra tutta la maestria del regista scozzese con il fido sceneggiatore Paul Laverty nell’indirizzare la vicenda. Tutto è preciso e credibile, a cominciare dai dialoghi che si possono ascoltare in tanti luoghi e che gli autori riescono a non rendere mai didascalici. Il titolo viene dal nome del bar (“la vecchia quercia”), con l’insegna cadente che dev’essere aggiustata, un po’ come lo sarebbero i rapporti sociali frantumati. Non è un film sui siriani o sui migranti, ma sugli inglesi e gli europei, come hanno e stanno assistendo o reagendo al fenomeno migratorio e alle tante emergenze umanitarie che si susseguono.
Loach chiama in causa tutta la vecchia classe operaia che nell’ultimo trentennio si è spostata a destra, in Gran Bretagna come in tutta Europa, su posizione anti-immigrati vedendoli solo come intrusi e nemici, e la invita a rivedersi in loro, a riconoscersi e a stare dalla stessa parte. “Chi mangia insieme, resta unito” è il motto, ripreso dalle lotte degli anni ‘80, che diventa realtà grazie a un tocco di magia e di favola che per Loach e Laverty non è nuova, basti pensare a Un bacio appassionato, La parte degli angeli o Il mio amico Eric.
Come l’Aki Kaurismaki dell’imminente Foglie al vento (presto nelle sale), il britannico mette da parte il pessimismo di tante sue opere per lasciare una speranza di umanità, non parla per partito preso, mette davvero in pratica la solidarietà e mostra che si può fare. È un’aggrapparsi alla possibilità di continuare a sperare, di potersi adattare (significativa la modifica al drappo) per resistere e non arrendersi all’onda nazionalista. Loach ha la capacità sempre più rara di tradurre le grandi dinamiche socio-economiche in immagini e storie comuni, senza voler fare trattati, ma riuscendo a mantenere la complessità dei fatti combinandola con la componente umana. Se qualche piccolo schematismo è funzionale alla trama, il regista lo fa perdonare grazie all’amore profondo che nutre verso i suoi personaggi, dei quali è un vero “marra”, il termine gergale con cui i minatori indicavano gli amici e compagni di lavoro stretti che è anche il nome del suo cane.
Incredibile è l’interpretazione del protagonista Dave Turner, che si era già visto in ruoli secondari in Io, Daniel Blake e Sorry, We Missed You, che porta addosso la vita vera e una sensibilità unica. Senza dimenticare la sempre esemplare colonna sonora di George Fenton, da una parte impercettibile, dall’altra vibrante assecondando le emozioni dei personaggi.
Nicola Falcinella
The Old Oak
Regia: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul Laverty. Fotografia: Robbie Ryan. Montaggio: Jonathan Morris. Musiche: George Fenton. Interpreti: Dave Turner, Ebla Mari, Debbie Honeywood, Chris Gotts, Rob Kirtley, Trevor Fox, Andy Dawson, Maxie Peters, Lloyd Mullings. Origine: Francia, 2023. Durata: 113′.