Le luci si spengono, il film ha inizio e, magicamente, ci troviamo a Londra. La confusione è più che giustificata considerando che nel regolare svolgimento degli eventi – nel racconto nato dalla mente di Edgar Rice Burroughs nel 1912 – Londra non è che il penultimo capitolo del racconto di Tarzan, l’ultimo scorcio di civilizzazione con cui il ragazzo della giungla deve rapportarsi prima di tornare al felice stato selvaggio da cui quella stessa civiltà, vittoriana e post-industriale, lo aveva reclamato con la promessa – che egli in seguito scoprirà fasulla – di un mondo ideale e pacifico.
Perché Londra, dunque?
Sfondando i canoni del classico il regista David Yates decide di iniziare la sua narrazione dal capitolo londinese, da un Tarzan (Aleksander Skarsgård) che ha ormai accettato il nome che è eredità della sua famiglia umana – John Clayton Greystoke – e sottolineando quindi chiaramente l’intenzione di focalizzare questa trasposizione cinematografica sulla seconda parte della storia originale, quindi sul ritorno dalla società allo stato selvaggio e non viceversa.
Tale decisione, tuttavia, non vuole né sminuire né tralasciare la prima parte della leggenda. Difatti, disseminando ricordi lungo tutta la narrazione, Yates si cura di raccontare e analizzare anche l’infanzia del ragazzo, la nascita del rapporto con l’elemento animale e naturale del Congo e la sua maturazione come unità facente parte di un contesto a lui diverso, ma ben definito, organizzato e riconoscibile nelle dinamiche di potere intrafamiliare che lo stesso Yates si premura di illuminare nel branco di gorilla nel quale Tarzan viene cresciuto.
Il rientro in Africa segna dunque l’inizio della narrazione.
L’elemento scatenante ha il volto di Leon Rom (Christoph Waltz), delegato del re del Belgio incaricato di rintracciare i diamanti di Opar nella regione del Congo, così da saldare i debiti che impediscono allo stesso re di portare avanti i suoi progetti sul territorio e che, per mano dello stesso Rom, stanno intaccando l’ecosistema e riducendo i popoli indigeni a schiavi senza potere né dignità, quegli stessi popoli indigeni che Tarzan e sua moglie Jane (Margot Robbie) considerano amici.
Inconsapevole della drammatica situazione, invitato da re Leopoldo a guidare una spedizione in Congo e sollecitato da George Washington Williams (Samuel L. Jackson) – suo futuro accompagnatore nell’avventura – ad accettare la proposta al fine di assicurarsi che nessuno dei progetti del re belga stesse sfruttando la schiavitù – deduzione logica viste le scarse finanze del re e la conseguente impossibilità a pagare abbastanza uomini – John parte per l’Africa, portando Jane con sé.
È l’inizio dell’avventura. L‘invito reale di Leopoldo si scopre un falso architettato da Rom, studiato per attirare Tarzan in loco e scambiarlo con un popolo indigeno di vecchia conoscenza del giovane della giungla in cambio dei diamanti.
Da qui in avanti l’abile utilizzo della tecnica del montaggio alternato ci accompagna dal ritorno del protagonista in Africa sino alla fine del film, intrecciando le vicende di Jane, presa in ostaggio da Rom poco dopo l’arrivo nella giungla, a quelle di John e George, uniti nel tentativo di salvare la donna.
La semplicità che la fotografia (Henry Braham) riesce a immortalare negli attimi di totale immersione nel contesto naturale e animale è sconvolgente e il protagonista, Aleksander Skarsgård, ne accentua senza difficoltà la purezza, incarnando un ruolo che, sebbene di fantasia, si presenta realistico a tal punto da generare sensazioni ed emozioni inaspettate.
La prova di Waltz invece non appare forte o d’impatto come ci si poteva aspettare, ma moderata e piuttosto somigliante ad altre prestazioni passate. Samuel L. Jackson, d’altro canto, sembra completamente calato nella parte e sinceramente divertito dal suo ruolo, così come la co-protagonista femminile.
The Legend of Tarzan non risulta essere un prodotto con molte pretese, bensì un film che ha fatto della rappresentazione della semplicità il suo miglior strumento, consegnandosi allo spettatore come un involucro di emozioni primitive che, frantumando le aspettative della mera trasposizione fiabesca, riesce a stimolare piacevolmente quell’amore per il selvaggio che tutti, inconsapevolmente, celiamo dentro di noi.
Mattia Serrago
The Legend of Tarzan
Regia: David Yates. Sceneggiatura: Craig Brewer, Adam Cozad. Fotografia: Henry Braham. Montaggio: Mark Day. Musiche: Rupert Gregsoon-Williams. Interpreti: Aleksander Skarsgård, Margot Robbie, Samuel L. Jackson, Christoph Waltz, Djimon Hounsou. Origine: USA, 2016. Durata: 110′.