A volte ritornano, ma sarebbe meglio che se ne stessero dove sono.
La comune quanto ignorante convinzione che un budget tutto sommato cospicuo (10 milioni di dollari) e un cast di attori di rango possano partorire un capolavoro, evidentemente, è intrinseca del pensiero di Ariel Vromen, regista della pellicola in oggetto.
C’erano tutti i presupposti perché questo film fosse degno d’essere chiamato tale, a partire dalla base biografica sulla quale si basa, la vita di Richard Kuklinski (Micheal Shannon), tra i più prolifici killer della storia americana. Il tema elargisce ampio materiale di scrittura e, se ben coordinato, sarebbe capace di lasciare il titolo di questa pellicola scolpito nell’albo degli insight psicologici meglio riusciti nella storia del cinema.
Purtroppo per noi, tuttavia, le nostre preghiere non hanno avuto ascolto e la ricompensa che ci tocca riscuotere è ben diversa da quella sperata.
Il film che ci si presenta è tutto fuorché brillante. La vita di Kuklinski è ridotta a un lamentoso groviglio di noiose uccisioni, sorrette da un ancora più insulso filo narrativo. La regia sembra aver deciso le inquadrature facendo a testa o croce coi colleghi della fotografia. Non c’è una sola inquadratura che sia interessante, persino il primo piano su un ormai incarcerato Kuklinski è preso di sbieco, quando, data la scena, una ripresa frontale avrebbe dato sicuramente più spessore al momento; sfortunatamente, però, la regia non è l’unica pecca. La sceneggiatura è povera e oltremodo lenta; lo sviluppo è quasi inesistente, sia per quanto riguarda i personaggi, che possono forse sperare in uno, al massimo due dialoghi di spessore, che per quanto riguarda lo svolgimento narrativo.
Andiamo però ad analizzare anche gli attori del cast. É innegabile che Shannon sia un’ottima scelta per l’interpretazione di Richard Kuklinski e, di certo, ha le abilità necessarie alla metamorfosi da uomo a cane rabbioso che il suo ruolo richiede; tuttavia, non per sua colpa, è rinchiuso dentro un progetto sterile che inevitabilmente lo costringe a una staticità a dir poco noiosa.
Accanto al killer troviamo Debora Kuklinski (Winona Ryder). Altra figura di scarso interesse e levatura. Quantomeno, l’incomparabile bellezza della Ryder allevia la sofferenza della visione, dando un senso alle inutili scene in cui il suo personaggio viene inquadrato. Si perdoni l’asprezza dei commenti, ma avere la Ryder nel cast e non utilizzarla a dovere è equivalente ad avere una macchina da corsa e tenerla in garage. Stesso identico discorso per il personaggio di Roy Demeo (Ray Liotta), il capomafia che assolda Kuklinski nei suoi primi incarichi. Evidentemente Vromen ha pensato che una pistola in mano a Liotta fosse sufficiente a ritrovare il vecchio Good Fellas del ’90.
Le sorprese però non finiscono qui. Siamo nel mezzo del film quando viene introdotto un nuovo personaggio, Mr. Freezy (Chris Evans). Ora, non per essere eccessivamente dissacrante, ma siamo seri? Chris Evans, l’attore che ha costruito la sua carriera sui supereroi, adesso interpreta un assassino a sangue freddo dal ristretto quanto gelido profilo psicologico? Bocciato su tutta la linea.
Infine abbiamo Marty Freeman (James Franco), un pesce piccolo della mafia locale, liquidato in un minuto. Hai J. Franco nel cast e, dopo un minuto di riprese, lo uccidi. Sono l’unico a sentirmi disorientato?
Non mi dilungherò oltre. Credo che il quadro che abbiamo delineato sia già piuttosto chiaro di per sé.
Mattia Serrago
The Iceman
Regia: Ariel Vromen. Sceneggiatura: Morgan Land, Ariel Vromen. Fotografia: Bobby Bukowski. Montaggio: Danny Rafic. Interpreti: Micheal Shannon, Winona Ryder, Ray Liotta, Chris Evans, James Franco. Origine: Usa, 2013. Durata: 106′.