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SPECIALE Sir Gawain e il Cavaliere Verde

Fatti decapitare e torna uomo

Irrompe in una Camelot decadente e stanca il Cavaliere Verde, demone arboreo, emanazione della natura, ma anche guerriero dalla forza tellurica. Irrompe in un banchetto natalizio dove tutto puzza di stantio e l’epica è solo un ricordo nostalgico. Artù e i suoi commensali vengono sorpresi dalla sfida del Cavaliere, evocato da Morgana, che lancia il suo gioco a un manipolo di eroi consunti: il gioco della decapitazione, una testa per un’altra testa. La voce tonante del Cavaliere penetra nella stasi di Camelot come una scossa elettrica per cogliere il più giovane tra gli uomini, Gawain (Dev Patel), rampollo di una stirpe eroica seppur sbiadita, dedito ai piaceri effimeri della vita e che ancora deve dimostrare di essere degno nipote di Artù. Testa per testa dunque, Gawain decapita il Cavaliere brandendo Excalibur e accettando di farsi decapitare a sua volta dopo 365 giorni dallo stesso Cavaliere che raccolto il capo mozzato ritorna al galoppo da dove è venuto, la sua Cappella Verde.

E’ uno strano oggetto Sir Gawain e il Cavaliere Verde (in streaming su Amazon Prime Video). Un fantasy dalle note esoteriche, ma anche romanzo di formazione ambientato nel medioevo anglosassone ancora segnato da Excalibur, portato sullo schermo da David Lowery, ispirato all’omonimo romanzo cavalleresco del XIV secolo. Il regista del Wisconsin, dopo aver omaggiato Redford in The Old Man & the Gun, torna al cinema fantastico (in precedenza Il drago invisibile Storia di un fantasma) con un racconto che riflette sulla crescita, il senso del dovere e la responsabilità individuale, il destino e il libero arbitrio.
Lowery non si discosta granché dal racconto di Pearl Poet (nome fittizio dell’anonimo scrittore che con Il Cavaliere verde chiude il ciclo arturiano), ma si capisce che la leggenda di Galvano, Sir Gawain, diventa il pretesto per mettere in scena un classico percorso ad ostacoli dove l’uomo per diventare eroe è costretto a rispondere alle ambiguità del cammino, dove la posta in palio è onorare l’impegno preso, il posizionamento tra i cavalieri più valorosi consegnandosi al mito, infine la vita stessa nonostante l’incombere della morte.

Il gioco della decapitazione è uno schiocco che costringe una vita statica all’avventura, un richiamo irresistibile che separa il fanciullo dalla possibilità di farsi uomo fuori dalle certezze del focolare rassicurante, dagli abbracci materni, dalle resistenze emotive. Fuori il bosco non risparmia mostruosità e incognite. Lowery dilata i tempi della narrazione così che il viaggio sia un misto di eventi dinamici e pause di riflessione, di interrogazioni di fronte al mistero. Non tutto è immediatamente codificabile, tanto di quel che emerge è imparentato a un apparato semantico lontano, colorato da simbologie legate al mondo cavalleresco anglosassone. Eppure è proprio questa impossibilità di decodificare ogni passaggio del racconto a rendere il film seducente, così da sprofondare lentamente, e senza troppe resistenze, nell’avventura, fino quasi a sentire l’umidità della foresta, l’odore della terra, il disorientamento di Gawain, sospeso tra realtà, sogno, illusione, fiaba, tra fantasmi, damigelle, giganti, vagabondi ladri e altre creature che sembrano poi emanazioni, o incarnazioni, di una sola forza creatrice e distruttrice al tempo stesso, una forza che si materializza solo per mettere alla prova la tenuta del giovane che anela a divenire Cavaliere.

Ma sembra esserci dell’altro, perché ad ogni prova (e la ri-prova sarà l’incontro con la seduttiva Lady, una magnifica Alicia Vikander, moglie del Signore di una tenuta non lontana dalla Cappella Verde) le fragilità del giovane contrassegnano un’umanità vera, dunque familiare, che determina la caducità non solo del mito, ma della vita stessa. Per questo il regista sembra rileggere il romanzo cavalleresco per declinare la fine dell’epica classica, così da configurare un eroe nuovo, intriso di un romanticismo che inneggia alla forza dell’individuo solo di fronte alla propria fallibilità, all’invincibile piccolezza, enfatizzata dalla natura indifferente e a tratti brutale, che nessuna prova eroica potrà confutare. In quest’ottica Sir Gawain e il Cavaliere Verde diventa un’opera affascinante sull’accettazione della morte, che è anche oggi, soprattutto oggi, un segno inequivocabile di maturità. Ovvero: Vai, fatti uccidere e torna uomo.

Vera Mandusich

The Green Knight e l’epica di formazione

La crescita personale, intesa come processo di formazione, non per forza di cose ha diritto di accadere all’interno della vita di ogni persona. La questione è duplice: da un lato il carattere dell’individuo, forse troppo legato a un infantilismo irrimediabile, e dall’altro gli eventi stessi, che nel loro essere capaci di formare una mente non hanno sempre luogo di per se stessi, come se fossero un dovere (e un dovuto), ma possono accadere come non accadere. Capita così che l’unione di questi due elementi, l’interno e l’esterno, possa differire per ognuno di noi, senza lasciare spazio a una scala di elementi in successione che ci portano a essere completi. Tale completezza, si noti bene, dipende dal concetto di età adulta, dove, lasciatici alle spalle le perdite di tempo, ci permette di apprezzare la vita in una forma più corretta (e, perché no, concreta). Ci sono, questo sì, dei cambiamenti a cui tutti (o quasi, problematiche congenite a parte) ci sottoponiamo, cambiamenti che devono il loro essere allo sviluppo biologico di ciascuno di noi, trasformando il cervello del bambino, ad esempio, in quello dell’adulto, in teoria maggiormente refrattario al credere in forma indiscriminata, senza chiedere l’onere delle prove.
Come nel caso di buona parte della cultura umana, si è andato creando un insieme di elementi che devono fungere da insegnamento nei confronti di chi si avvicina ai suddetti cambiamenti (e non solo). Viviamo, detto in altre parole, in un reticolo di tradizioni che, spogliate della loro veste locale, nell’ossatura rivelano una necessità indispensabile: l’atto di insegnare, di mostrare sia cosa ci starebbe per accadere sia come far fronte a questo evento, è qualcosa di cui non sembriamo essere capaci di fare a meno. Nasce così, nel campo della letteratura e dell’arte di raccontare storie, quel senso di dovere sociale grazie a cui si presenta all’iniziato il succedersi dei passi a cui deve sottoporsi per entrare a far parte del gruppo (quello degli adulti, per esempio, ma anche quello di chi elabora un lutto, una sconfitta lavorativa, una menomazione). Rito di passaggio, quindi, iniziazione a qualcosa di diverso, capace di trasformare chi siamo ora in quello che saremo poi, nell’ottica mai mal celata di un netto miglioramento psicologico. Una visione ancora più antica del concetto hegeliano di progresso, da andare a snidare nelle ridotte popolazioni tribali degli antenati umani.
Il Cavaliere Verde, allora, rientrerebbe in quello che è un insegnamento sia di carattere culturale ristretto (specifico, cioè, sia di quel periodo storico che di quel mondo), sia di carattere culturale, o anche solo psicologico, universale (adattabile, cioè, a qualsiasi persona in qualsiasi parte e momento del mondo, purché l’età sia quella giusta). Il film non sarebbe più un’opera di carattere estetico da vedersi come chiusa dentro se stessa, quindi, ma come funzione integrante di una società che vuole crescere e far crescere: quello che succede a Gawain non è un atto che si autoalimenta in un circolo di azioni che hanno inizio e fine in se stesse, ma risponde a una necessità di apertura verso il mondo, facendo in modo che la metafora e gli elementi soprannaturali abbiano valore non come fotografia di un mondo “altro” che esiste nel nostro, quanto come schemi da leggersi e da adattare alla nostra esperienza quotidiana; che un cavaliere verde esista o meno (e, ovviamente, non esiste) nella concretezza del nostro universo non è importante in sé, mentre lo è il fatto che l’insegnamento che viene proposto (dar fede alla parola data, anche a costo della morte) risulta essere proponibile in ogni contesto.
Il fatto che il Cavaliere Verde possa funzionare nella nostra società (quest’ultima espressione è valida solo nella presa di coscienza dei cambiamenti temporali della cultura, non come velata critica a un mondo teoricamente brutto, penoso e mediocre) risponde quindi alla domanda seguente: la rilettura e la trasformazione dell’epica arturiana, a sua volta basata su elementi più antichi, possono ancora dirci qualcosa? Forse l’essere umano non è cambiato così tanto nei suoi millenni di vita, pre e post civilizzazione, ed è per questo che troviamo nel passato qualcosa in grado di parlare al presente. Abbiamo sempre la stessa necessità di mangiare almeno una volta al giorno, come anche di dormire (e sognare) durante la notte. E, in tutto questo, rimane in noi l’obbligo morale e biologico di ascoltare una storia capace di insegnarci qualcosa, qualsiasi cosa, purché possa aiutarci ad avere una migliore comprensione di noi stessi e del mondo.

Guido Negretti

Sir Gawain e il Cavaliere Verde

Regia e sceneggiatura: David Lowery. Fotografia: Andrew Droz Palermo. Montaggio: David Lowery. Interpreti: Dev Patel, Alicia Vikander, Joel Edgerton, Sarita Choudhury, Sean Harris, Ralph Ineson, Barry Keoghan. Origine: USA/Canada, 2021. Durata: 130′.

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