Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
The Forger
Regia: Philip Martin. Sceneggiatura: Richard D’Ovidio. Fotografia: John Bailey. Montaggio: Peter Boyle. Interpreti: John Travolta, Christopher Plummer, Tye Sheridan. Origine: USA, 2014. Durata: 92 min.
The Forger, il falsario, o secondo l’etimologia del vocabolo inglese, colui che forgia, che fabbrica qualcosa di diversamente autentico. È infatti su questo processo di falsificazione, più che sulla falsificazione in sé, che si concentra la pellicola di Philip Martin, un mestierante televisivo fino a ieri totalmente sconosciuto, il cui lavoro più famoso è forse quel Hawking (2004) con Benedict Cumberbatch. Adesso abbiamo un grande nome sul viale del tramonto, cioè un sempre bravo John Travolta che, dopo la porcata incommensurabile di Killing Season (2013), si era preso un anno sabbatico per poi tornare a calcare il palcoscenico in una serie di pellicole per lo più in post-produzione, e che saranno distribuite tra qui e l’anno venturo. È probabile che The Forger, l’unica attualmente visionabile, resterà a vegetare per molto tempo nel limbo dei non distribuiti, primo perché non si tratta di un film d’azione, sparatorie, inseguimenti e pestaggi, secondo perché non ha nemmeno tutte le carte del noir vecchia scuola. È un ibrido, un miscuglio di cose tra loro non sempre perfettamente amalgamate, e quando si parla di cinema di genere il pubblico preferisce vederci chiaro.
Eppure The Forger è un piccolo grande film, ben scritto, ben montato e ben interpretato. Non ha grandi momenti di cinema ma nemmeno grosse cadute di stile, in qualche occasione è pure emozionante e nonostante la brutalità delle tematiche trattate non cade mai nel banale. Non poco per un americano. Anzi, a ben guardare è proprio questo il punto di forza della pellicola: prendere un dramma famigliare dalle tinte forti e trasformarlo in un oggetto altro da sé, una variazione del dramma stesso che si permette di inserire intermezzi di grande delicatezza laddove nessuno se lo sarebbe aspettato. Travolta è Raymond Cutter, un abilissimo falsario finito dietro le sbarre. Suo padre (Christopher Plummer) è un anziano ladruncolo che vive con il nipote Will (Tye Sheridan), un adolescente malato terminale di cancro. Pur di poter trascorrere gli ultimi mesi accanto al figlio, Raymond corrompe un giudice con una tangente di cinquantamila dollari. Esce di galera prima del tempo, ma presto dovrà pagare il debito falsificando la celebre La passeggiata di Monet. Il senso di tutto questo? Penetrare nottetempo in un museo, sostituire l’originale con la copia, e vendere il quadro a un potente collezionista dei narcos sudamericani. L’operazione è rischiosa, la polizia sta alle calcagna del nostro falsario, ma le condizioni di Will si aggravano sempre di più e Raymond deve prendere una decisione.
Philip Martin lavora per riduzione, sottrae materia al proprio lavoro come Travolta ne aggiunge alla sua tela, attenua i colori per fare del suo film l’imitazione di un quadro (o di un film?) impressionista, tempi dilatati e ampi spazi morti, caseggiati e strade, oggetti del quotidiano che perdono qualsiasi coordinata, qualunque significato in vista di un dramma più grande e ineluttabile: la morte di un figlio. La malattia di Will diviene allora l’unica occasione per Raymond di riscattare le proprie colpe, e cancellare i debiti commettendo un ultimo crimine: uno chef-d’oeuvre della falsificazione, successo e coronamento di una straordinaria carriera criminale. Le bastonate non mancano, Travolta fa a pugni con i compagni, prende la mazza da baseball e spacca tutto quello che può spaccare. Ma non è questo il cuore del film, quanto il suo contorno, gli attimi di intimità tra padre e figlio, l’uno che tenta di falsificare la propria vita nel desiderio di falsificare la fatalità della malattia, l’altro che invece si avvicina alla morte con l’atarassica consapevolezza di dover valicare quell’ormai sottilissimo confine. È un padre disposto a tutto, Raymond, a contattare la madre naturale di Will, una tossica che ha abbandonato il figlio ancora bambino, a costringerla a pranzare con quel ragazzo che non vedrà più, inscenando una normalità che nessuno, in quella famiglia, ha mai avuto veramente il tempo di costruire. E quando la morte si avvicina, quando i giorni si staccano dal calendario e le visite in ospedale si fanno più frequenti, Raymond coinvolge il giovane Will nella sua attività, spiegandogli la poesia della contraffazione, la bellezza di un accostamento, la produzione naturale di colori, proprio come facevano i pittori di una volta, gli impressionisti che catturavano sulla tela l’attimo fuggente, il momento destinato a non ripetersi. Philip Martin realizza la sua piccola Passeggiata, la storia privata di un padre e un figlio separati dalla vita, riuniti dalla morte.
Marco Marchetti