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The Boy

the boy2Il nome di William Brent Bell non è proprio una garanzia. Americano, giovane e belloccio, aveva cominciato la sua carriera con una serie di pellicole horror di dubbia qualità, quasi tutte ascrivibili al filone demoniaco esorcistico, quello che ha avuto in Scott Derrickson il massimo cantore e che proprio all’epoca cominciava a circondarsi di arzigogoli psicologici per darsi arie d’impegno. Se le operazioni precedenti di Bell si limitavano a delle robette un po’ barbine, come L’altra faccia del diavolo (2012) e Wer – La bestia (2014), questo The Boy sorprende per la simpatia delle sue trovate, che sono ruspanti, scanzonate, persino sperimentali se rapportate alla minestra a cui il cinema di paura ormai è avvezzo. La protagonista è Greta (Lauren Cohan, il personaggio di Maggie di The Walking Dead, una delle poche attrici a rimanere impressa più per il sorriso che per le tette), qui alle prese con una tenebrosa magione inglese abitata da una strana coppia di anziani. Il suo lavoro è fare la tata, cioè occuparsi del piccolo Brahms, un bambino un po’ dispettoso ma tutto sommato abbastanza affettuoso se preso con le buone, almeno a detta dei genitori, ma che ha la particolarità di essere diverso da tutti gli altri bambini. Non è vivo, infatti, non ha pelle, non ha carne, è privo di sangue. Il suo corpo è interamente composto di porcellana: freddo, inanimato, insomma un bambolotto cresciuto, amato ed educato come un essere umano. La Cohan la prende male, e quando i due vegliardi partono per una vacanza, non ci pensa due volte a gettare il pargolo sulla poltrona per dedicarsi agli affaracci propri. Eppure quella bambola innocua d’improvviso si anima di una forza oscura e vendicativa, che non si vede, non si mostra, la si intuisce attraverso delle intelligenti, per quanto scontate, scelte di fuori campo. Quando Greta fa la doccia, il manichino si drizza e la chiude in soffitta, oppure le mette a soqquadro la casa salvo poi farsi trovare immobile e giudizioso, assiso sul letto o nello studiolo, non appena la ragazza decide di dargli la caccia.

the boy1È cinema del non detto, quello di Bell, che scomoda persino un grande classico del genere come Gli invasati (1963) di Robert Wise, ma che in fin dei conti cita, scimmiotta e ricalca un canovaccio abusato mille volte, quello della presenza misteriosa che aleggia per l’antica magione ma che non si palesa se non per indizi, quasi affacciandosi timidamente sull’aldiquà, giocando con lo spettatore ma frustrandolo, sottraendosi, rimanendo a latere, nelle intercapedini, nel sottoscala, nella stanza che nessuno ha pensato di inquadrare. L’idea certo funziona, perché più che di poltergeist, parliamo di bambole, meccani freudiani e perturbanti, creature fatte ad immagine di qualcosa che è stato, e che forse continua ancora a essere, ma a un livello più sottile e impalpabile. Se il ghiribizzo dell’automa accudito come un fanciullo ricorda la versione seriosa di Lars e una ragazza tutta sua (2007), l’impianto resta, dicevamo, quello di una ghost story classica, più alla Maupassant che alla James, in cui l’orrore si traveste da introspezione psicologica, il rimosso che ritorna, la proiezione di sentimenti umanissimi su cose che di umano non hanno nulla. Greta fugge da un passato di violenza, la famiglia del bambolotto aveva un figlio reale, in carne ed ossa, misteriosamente perito in un incendio. E com’era da vivo questo Brahms? Strano, a detta di Rupert Evans, il ragazzo delle consegne, o meglio “odd”; che non è necessariamente sinonimo di strange.

Quando Greta comincia a coccolare la bambola per scongiurarne le piccole cattiverie, quando si immedesima nel gioco perverso di essere tata a discapito della banalità della situazione, ecco che il regista comincia a ingannarci, a sedurci, a spostare i rapporti di causa effetto per trasformare un’impressione nel suo opposto, l’idea dell’orrore che la pellicola riesce comunque ad evocare nella suggestione che in realtà di orribile non ci sia proprio nulla, tranne questo continuo, inconsapevole scambio di manipolazioni reciproche. Forse Greta si sta ammalando della stessa malattia degli anziani possidenti, forse si tratta di un banale caso di folie à deux, o à trois, che si trasforma, si espande, e parte da un feticcio per incastrarsi nel profondo dell’inconscio. Ma non è così, inutile dirlo. Bell è un furbacchione, la punta sul finale ad effetto che funziona benissimo anche se l’abbiamo già visto almeno in un film di Pupi Avati, lascia la psicologia per dialogare con quel pubblico mainstream che gli ha da sempre consentito di lavorare. Fa bene, per carità, e The Boy resta allora un buon film da serata di pioggia, che non cade nel banale, si basa su una sceneggiatura ben congegnata, ma che purtroppo resta privo dell’ambiguità di un The Babadook.

Marco Marchetti

Regia: William Brent Bell. Sceneggiatura: Stacey Menear. Fotografia: Daniel Pearl. Montaggio: Brian Berdan. Musica: Bear McCreary. Interpreti: Lauren Cohan, Rupert Evans, Jim Norton, Diana Hardcastle. Origine: USA, 2016. Durata: 97′.

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