Il rapporto tra intenzionalità e azione materiale è stato oggetto di controversia filosofica e teologica fin dall’antichità e tutt’oggi non ha smesso di suscitare problematiche e dibattiti accesi. Nell’Udienza Generale del 4 novembre del 2009, a distanza di novecento anni dal Concilio di Sens, papa Benedetto XVI biasimava ancora la dottrina del filosofo medievale Pietro Abelardo, reo di aver insistito «nel considerare l’intenzione del soggetto come l’unica fonte per descrivere la bontà o la malizia degli atti morali», con la pericolosa conseguenza di trascurare «l’oggettivo significato e valore delle azioni» e dare così luogo a «un soggettivismo pericoloso». Separare l’esteriorità del gesto da ciò che l’ha prodotto ha suscitato per secoli grande sospetto e timore, persino nell’ambito della giurisprudenza e della psichiatria, cui spettava maggiormente il compito di offrire metri di giudizio oggettivi, applicabili in modo sistematico e generale. In realtà, ciò che davvero emerge in questo morboso interesse per la responsabilità individuale è un approccio inquisitorio dai caratteri maniacali, che trova giustificazione nel sostanziale rifiuto per tutto ciò che non è visibile, che sfugge alle rigide categorie tanto della fede quanto della comprensione razionale.
Chesley Sullenberger (Tom Hanks), detto Sully, è un pilota della US Airways. Alle ore 15:24:56 del 15 gennaio del 2009, decolla con il suo Airbus A320 dall’aeroporto di LaGuardia diretto a Charlotte, in Carolina del Nord. A bordo dell’aereo ci sono 150 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio. Pochi minuti dopo la partenza, uno stormo di uccelli mette fuori uso entrambi i motori. Con l’aeromobile privo di spinta, Sully è chiamato a trovare una soluzione in brevissimo tempo. Nonostante le indicazioni da parte della torre di controllo di effettuare un atterraggio di emergenza sulla vicina pista 13, l’istinto e la grande esperienza accumulata in più di quarant’anni di servizio inducono Sully a tentare l’ammaraggio sul fiume Hudson. La manovra ha successo e il capitano del volo 1549 diventa in poche ore un eroe nazionale. Non per gli organi competenti però, i quali aprono un’inchiesta per valutare se la scelta compiuta dal pilota non sia stata dettata da eccessiva audacia. Sully rischia seriamente il licenziamento e la sospensione della pensione.
L’argomento affrontato da Eastwood nella sua trentanovesima esperienza registica non è certo una novità, né pretende di esserlo. Il rimando a Flight di Robert Zemeckis risulta quasi scontato, e non solo per lo scenario del disastro aereo che condivide. Le analogie sono ben più profonde: in entrambi casi, il pilota effettua una manovra senza precedenti; in entrambi i casi, tale manovra consente ai passeggeri di scampare da morte sicura; in entrambi i casi, il comandante dell’aereo viene sottoposto a un processo da parte di una commissione di esperti che mette in discussione la scelta compiuta, o quantomeno le ragioni che l’hanno resa possibile. Poco importa se William “Whip” Whitaker compie il miracolo sotto l’influsso della cocaina, mentre Chesley “Sully” Sullenberger agisce sulla spinta del proprio straordinario talento e intuito di pilota consumato. Ciò che emerge con forza è che, tanto in Flight quanto in Sully, periti ed esaminatori sembrano animati più dal desiderio di ricondurre l’evento alla normalità, quasi a negarne il carattere prodigioso, che dal fare chiarezza sui fatti. Quello che paradossalmente i giudici delle commissioni sembrano rimproverare ai due piloti è proprio di aver impedito che la tragedia si compisse, di essere andati contro le leggi della natura, di non essere morti come le circostante avrebbero previsto. Rispetto a Zemeckis, però, Clint Eastwood compie un ulteriore passo: egli rivendica il diritto all’eroicità, un’eroicità che, per quanto risenta ancora, soprattutto nel finale, di un certo patriottismo vecchia maniera di fondo, viene spogliata dall’immagine stereotipata del mito invincibile americano e restituita alla sua anima tragica, all’intima solitudine di chi patisce l’eccezionalità del dono ricevuto e la manifesta, inaccettabile diversità.
Determinante, sotto questo aspetto, è l’impianto narrativo allestito da Eastwood per raccontare la vicenda, naturale conseguenza di una maturità artistica raggiunta che consente al regista californiano di mettere da parte la linearità dello stile a cui ci ha abituati per adottare un linguaggio più articolato in grado di esaltarne ulteriormente il talento. Tutto ruota, infatti, intorno alla dinamica dell’incidente, senza che l’incidente stesso trovi una specifica collocazione nell’incipit o nel climax.
Il prodigioso ammaraggio viene riproposto a più riprese all’interno della narrazione, e tuttavia, in tale ripetitività, le sequenze svelano ogni volta qualcosa di nuovo, non perché mostrino elementi differenti o dettagli sfuggiti a un primo sguardo, ma perché si rinnovano continuamente nella progressiva presa di coscienza del prodigio avvenuto, in una sorta di reiterata conferma dal sapore rituale, sempre uguale e sempre diversa. Il risultato è un’intima, sofferta riappropriazione da parte del protagonista di un’umanità dignitosa, che fa dell’impossibilità di essere spiegata all’interno di un algoritmo l’essenza stessa dell’eroismo, la miracolosa e inspiegabile manifestazione di una realtà superiore che irrompe nell’ordinario mutandone per un istante le leggi.
Manuel Farina
Sully
Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Todd Komarnicki. Fotografia: Tom Stern. Montaggio: Blu Murray. Musiche: Christian Jacob. Interpreti: Tom Hanks, Aaron Eckhart, Laura Linney, Anna Gunn, Mike O’Malley, Ann Cusack, Sam Huntington, Jamey Sheridan. Origine: USA, 2016. Durata: 96’.