Roma, 5 novembre 2011. Nel raccolto silenzio degli appartamenti papali, Benedetto XVI sussurra al proprio collaboratore la volontà di dimettersi. Roma, 16 novembre 2011: crolla il quarto governo Berlusconi. Suburra di Stefano Sollima si colloca tra questi due opposti cronologici che in realtà finiscono per rivelarsi indici di cambiamenti più profondi, sintomi di un’irrimediabile crisi istituzionale e culturale che mescola con la medesima indifferenza le macchinazioni del Vaticano con gli intrighi della politica, le trame della finanza a quelle delle cosche mafiose ormai padrone della capitale. In una notte piovosa di bagordi, il deputato Malgradi (Pierfrancesco Favino) organizza un coca party con prostitute minorenni. Una va in overdose, l’altra fa sparire il cadavere grazie all’aiuto del baldanzoso Spadino, giovane esponente di un clan di zingari che presto ricatterà quel disgraziato di Malgradi chiedendogli soldi e favori. È la proverbiale palla di neve che scatena la valanga, un evento che determina il successivo che a sua volta amplifica e sottolinea il precedente. Malgradi chiede aiuto a un suo collega di partito, che incarica un mafioso di Ostia soprannominato Numero 8 (Alessandro Borghi) di dare una lezione allo Spadino. Si comincia con le minacce e si finisce a gole tagliate e lotte fratricide tra zingari e criminali da suburra. La compagna di Numero 8 (Greta Scarano, che già aveva recitato accanto a Favino in Senza nessuna pietà) ammazza le persone sbagliate al momento sbagliato, un poveraccio senza né arte né parte (Elio Germano) si scopre testimone scomodo di un evento terribile, un grande boss di mafia capitale (Claudio Amendola) si scomoda per sistemare il casino che i suoi sottoposti hanno appena piantato. In ballo ci sono molti, troppi soldi. E nomi troppo grossi per essere taciuti…
La grande bruttezza. È proprio questa la prima (forse unica) cosa che viene in mente dopo aver visto il secondo lungometraggio di Stefano Sollima, l’opulenza del Potere, la depravazione dei miserabili, l’orrore di una città che di glorioso ha ormai soltanto la fama di cui ancora scrivono i libri di storia, e che per il resto si riduce alle bassezze più terrificanti degli umani istinti. È però una bruttezza volutissima, questa di Sollima, che ha manipolato l’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo (Einaudi 2013), eliminando la figura positiva del poliziotto per ingigantire i personaggi di contorno, i cattivi, le carogne, i mostri del nostro quotidiano che hanno avviluppato la nazione con i loro tentacoli proteiformi. È proprio la mancanza dello sbirro, cosa abbastanza curiosa per il regista di Acab (tratto anch’esso da un romanzo di Bonini), a rendere il suo film così ineluttabile nelle scelte registiche e tanto convergente in quelle estetiche. Se si nega l’elemento pacificatore, la figura garante delle istituzioni e dell’ordine ristabilito, ecco che allora la delinquenza diventa l’unico comune denominatore in queste vicende all’apparenza tra loro distaccate, in verità perfettamente collegate in una rete di favoritismi e ripicche. Da un lato la ricchezza burina degli zingari (contrappunto paurosamente attuale ai Casamonica) che uccidono, rubano e fottono tutto quello che possono uccidere, rubare e fottere; dall’altra i poveracci che si adeguano al sistema, che assecondano le ruberie perché ormai intrallazzati con la “piovra”, e che devono espiare le colpe dei padri e i loro imperdonabili errori. Suburra è un grande teorema che parte da Roma per raffigurare l’Italia intera, che studia il microcosmo di una città decaduta per intavolare un più ampio discorso sui massimi sistemi nazionali. Non c’è nessuno che si salvi, in questo paese, il presente è ormai una ragnatela di relazioni gelatinose tra i più vari settori dell’imprenditoria e della politica. A cosa serve resistere? Non c’è nessuna possibilità di cambiamento, sembra suggerire il bravo regista, nessun modo per uscirne se non sottomettendosi alle sue regole spietate. Lo Stato è assente perché è assente la Civiltà, di Roma, dell’Italia, della nostra comune storia patria.
Mentre l’inquietante musica degli M83 scivola per i monumenti illuminati dell’Urbe e una torrenziale esondazione rischia di far tracimare le fogne, tutto ciò che resta è il corso millenario del Tevere, che scorre maestoso e spaventevole, lavando i peccati, nascondendo i più torbidi segreti dei suoi abitanti, a volte restituendone qualcuno. Pochi l’hanno notato, ma uno degli sceneggiatori è proprio quello Stefano Rulli che scrisse il più anarchico film sul Vaticano: Nel più alto dei cieli (1977) di Silvano Agosti. Mai distribuito e oggi quasi introvabile. Chiedetevi perché.
Marco Marchetti
Del film ne ha ampiamente parlato Marco. Si è detto “La grande bruttezza”. In effetti il paragone con La Grande Bellezza di Sorrentino viene alla mente piuttosto facilmente. Tuttavia così come si pensa, allo stesso momento si sentono e si vedono fortissime le differenze. In quel film era descritta una Roma un po’ burina, disattenta e disadorna, volgare e frivola. Veniva fuori una città abbandonata a se stessa, vittima di distrazione.
In Suburra il discorso è completamente diverso. Qui c’è sangue, morte, corruzione, suicidio, odio, ricatto, sesso comprato e sesso venduto, ci sono soldi e affari, colpi di pistola e gole tagliate. C’è tutto lo schifo di una città predata da una banda di farabutti, una banda composta da politici, ex militanti della lotta armata di destra, piccoli spacciatori e grandi boss di quartiere. Qui non c’è distrazione. In Suburra Roma marcisce perchè chi la dovrebbe governare e ancora di più, e più colpevolmente, chi ci dovrebbe vivere, fa esattamente il contrario di ciò che dovrebbe fare. Lo fa per interesse personale e tutto il resto non conta.
Su questa Roma cade una pioggia insistente, dolorosa, che sembra voler lavare via tutto il marcio e in un certo senso l’acqua è davvero l’elemento purificatore, quello che accoglie la morte e lava via il sangue. Ciò che colpisce è la totale assenza di personaggi positivi. Ci sono i cattivi, come da copione. Ci sono le vittime dei cattivi che talvolta si trasformano a loro volta in carnefici, solo per salvare il loro piccolo mondo. Soluzioni non se ne vedono. La morte è l’unica possibilità, ma oltre a quella ci vorrebbe uno scatto morale, una presa di coscienza, ci vorrebbero indagini e arresti.
Pura utopia.
Fino a quando la realtà, le notizie sui giornali, scoperchiano il vaso di Pandora.
Alessandro Barbero
Suburra
Regia: Stefano Sollima. Soggetto: Carlo Bonini, Giancarlo De Cataldo. Sceneggiatura: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Carlo Bonini, Giancarlo De Cataldo. Fotografia: Paolo Carnera. Montaggio: Patrizio Marone. Musica: M83. Interpreti: Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola, Alessandro Borghi, Elio Germano, Greta Scarano. Origine: Italia, 2015. Durata: 130′.