India Stoker, interpretata dalla giovane attrice australiana Mia Wasikowska, vive con l’anaffettiva madre Evelyn (Nicole Kidman) in una splendida e luminosa casa fuori Nashville, completa di un inquietante ambiente sotterraneo, attraversato da ombre e luci tremolanti. Le due donne sono in lutto per la morte del padre e marito Richard (Dermot Mulroney), scomparso proprio il giorno del diciottesimo compleanno della giovane. Oltre al disprezzo reciproco che provano l’una per l’altra, Evelyn e la figlia non condividono null’altro. L’arrivo dello “Zio Charlie” (Matthew Goode), fratello del defunto, le ricongiunge nella perversa attrazione che provano verso quell’uomo misterioso e seducente.
Come in molte sequenze di Terrence Malick, dove spiritualità e brutalità convivono, a dimostrazione che la realtà contiene in sé aspetti tra loro antitetici, qui l’atmosfera di desiderio e piacere si fonde a quella di pericolo e minaccia, eros e distruzione procedono per incremento: più il turbamento è forte più alto è il godimento che ne deriva. La famiglia Stoker si inserisce perfettamente in questo genere di dinamica, India percepisce cose che gli altri non possono avvertire e questi sensi sono il frutto di una vita fatta di desiderio, un desiderio morboso ed inquietante che prelude al male, così come il titolo del film allude metaforicamente evocando l’autore di Dracula, Bram Stoker. Non mancano nemmeno tracce hitchcockiane a questo opprimente thriller psicologico che dal maestro del brivido prende dichiaratamente spunto fin dalla trama, il riferimento è a L’ombra del dubbio (Shadow of a doubt, 1943): il tema del doppio, lo zio Charlie e la nipote, il passato inconfessabile del primo e l’ambiguo legame tra i due personaggi.
La sceneggiatura di Stoker è firmata Ted Foulke, pseudonimo di Wentworth Miller, attore nella famosissima serie Tv Prison Break. Miller sceglie di debuttare come scrittore al fianco dell’acclamato regista sud-coreano Park Chan-Wook che per la prima volta dirige un film inglese dopo aver ottenuto un riconoscimento internazionale per la sua “Trilogia della Vendetta”. In particolare il capitolo di mezzo, Old boy (2003), è stato apprezzato da molti cinefili sud-coreani ed esteri per la sua bellezza visiva e per l’estrema violenza. Questo vale anche per il suo ultimo film: fluidi movimenti di macchina, colori saturati e salti temporali accompagnati da un crescendo musicale, costruiscono con eleganza il quadro entro cui si replica l’esperienza interiore di India in un intensificarsi serrato di emozioni contrastanti. La violenza a cui le immagini sottendono e in alcune occasioni mostrano, non è semplice spargimento di sangue, ma tensione verso qualcosa di più oscuro e ineluttabile.
Secondo Park, il suo primo film in Occidente, è innanzitutto un romanzo di formazione ed India è la ragazza problematica costretta a vivere in un ambiente claustrofobico che mal si addice al suo spirito ribelle, ma grazie all’aiuto del perverso zio Charlie scoprirà la sua vera identità.
Jenny Rosmini
Stoker a tinte forti
Al suo nono lavoro da regista, Park Chan-Wook (noto in Italia per la trilogia della vendetta) compie un salto di 10.000 chilometri, scavalca un oceano e atterra su suolo americano, pronto a vendere sangue e talento squisitamente asiatici.
Stoker è questo, un mostro coreano con pelliccia a stelle & strisce, impregnato ancora di un gradevolissimo odore orientale. Non solo: è l’evoluzione stilistica del suo autore, nonché un banco di prova per testare il suo livello tecnico. Il film si configura come un’importante dimostrazione di maturità artistica, dove colori e suoni agiscono in un mix perfetto che cattura i sensi e, lentamente, anche il cuore.
Il corpo centrale della pellicola è India. La mdp si sposta con lei e ne segue le ossessioni mentali, dal rapporto incestuoso tra madre e zio, al romantico sentimento di protezione che sente provenire da quest’ultimo.
La prima parte del film non cattura subito lo spettatore. La cinepresa si diverte in acrobazie tecniche, il racconto rintrona con montaggi alternati ma che acquistano grande potenza rivelatrice, i colori freddi si alternano a sprazzi di luce calda (come sangue che macchia un fiore o un viso pallido).
Dopo la prima metà poi si intuisce quale sia la strada percorsa dal film, seminascosta tra le fronde del racconto cinematografico di Park: il percorso di svezzamento e raggiungimento dell’età adulta in un turbinio di inarrestabile violenza. Simbolicamente cambiano le scarpe, i vestiti, continua a cambiare, in un perenne gioco di luci, il colore dei suoi occhi. Dal pozzo nero impenetrabile e tenebrosamente invitante della India iniziale, si passa attraverso specchi di un azzurro plumbeo, per approdare a un castano scuro finale di passione e libertà. Lo sguardo della protagonista sembra contenere l’intero spettro dei colori e delle emozioni umane.
Come sottolinea il bellissimo brano di Emily Wells che chiude il film (Becomes the Color), l’utilizzo certosino di tinte e pigmenti occupa un ruolo fondamentale e regge gran parte dell’opera. Gli sguardi raccontano, non solo quelli di India, ma gli occhi oro-azzurro della Kidman (grande prova attoriale purtroppo relegata a co-protagonista) e il verde glaciale e ferino (o rettiliano) di zio Charlie sono elementi narrativi.
Elia Andreotti
Stoker
Regia: Park Chan-Wook. Sceneggiatura: Wenworth Miller. Fotografia: Chung-Hoon Chung. Montaggio: Nicolas de Toh. Musica: Clint Mansel. Interpreti: Mia Wasikowska, Matthew Goode, Nicole Kidman, Dermot Mulroney, Jackie Weaver. Origine: USA, Regno Unito. Durata: 100′.