Il 1953 è stato l’anno dell’ultimo tour europeo di Stan Laurel e Oliver Hardy. Da qui parte Jon S. Baird per raccontare non la carriera della più famosa tra le coppie comiche cinematografiche, quanto piuttosto, ma non solo come vedremo, il tramonto della vita artistica di Ollie (morirà nel ’57) e gli ultimi fuochi del genio di Stan (che invece se ne andrà nel 1965).
Lontano il periodo d’oro, il duo è riunito per cercare finanziamenti che possano far partire il progetto di un Robin Hood cinematografico in chiave parodistica, un po’ come da qualche tempo facevano Abbott e Costello (Gianni e Pinotto per il pubblico italiano), rivisitando generi e miti moderni (da Frankenstein all’Uomo Invisibile). Nonostante sia ancora vivo il ricordo del pubblico britannico, Stan e Oliver sono costretti a spettacoli in teatri di periferia e ospitati in alberghi di terza categoria, sviliti da un manager che non crede davvero in un ritorno alla fama in un momento dove il pubblico diserta cinema e teatri, più interessato ai nuovi apparecchi televisivi. Antichi rancori e un infarto che colpisce Oliver sembrano porre fine all’avventura, che invece, inaspettatamente, dopo un cambio di strategia inizia a decollare.
Stanlio e Ollio è una seduta spiritica, più che riportare in vita due autentiche leggende ne rievoca la sostanza attraverso ectoplasmi. Stan e Ollie aleggiano intorno ai corpi dei pur bravi Steve Coogan e John C. Reilly; si fanno presenti nel ricordo delle gag evocate dallo script di Jeff Pope (sceneggiatore di Philomena), rivolgendosi direttamente alla memoria dello spettatore in sala: “ma certo, l’uovo sodo e la noce, Ollio con la gamba ingessata, il contrappeso che finisce giù dal balcone e con lui il dottore, mentre Ollio finisce a gambe all’aria”; “quella valigia che precipita da una rampa di scale non ricorda un pianoforte in una cassa scivolosa?”. E i titoli, cambierebbe qualcosa ricordare che quel pianoforte era il terzo protagonista di The Musical Box, tre rulli premiato con l’Oscar nel 1932? Se non ci fosse un ciak a ricordarci che il set che apre il film è quello de I fanciulli del west, probabilmente sarebbe bastata la familiarità riaffiorata dalla danza goffa, e aggraziata al tempo stesso, della coppia davanti al trasparente in cui un improbabile lontano west fa da sfondo, a scatenare la nostalgia per quei due che non ci sono più ma che in un certo senso non se ne sono mai andati.
Il film di Baird in fin dei conti non ha bisogna di didascalie, ci vuol raccontare qualcosa sull’amicizia scoperta o riscoperta o malcelata prima e compresa poi (dipende dai punti di vista dei protagonisti) tra due personaggi che si ritrovano persone sul viale del tramonto, quando lo spettacolo cinematografico li ha definitivamente espulsi come corpi indesiderati, e non per demerito loro ma semplicemente perché il cinema vive di ere dettate da trasformazioni repentine del gusto, dalle esigenze di mercato, dalle nuove tendenze e da altre forme di intrattenimento. L’avvento del sonoro aveva schiantato diverse star, qualcuno aveva retto a fatica, altri ci avevano lasciato la pelle, pochi (Chaplin su tutti, naturalmente Laurel e Hardy) erano riusciti a reinventarsi. Passaggi epocali che emergono nelle tracce sotterranee del film, ad esempio nell’incipit, nel piano sequenza che ci lascia attraversare gli studios e ci precipita in un dialogo dai toni forti tra Stan – la mente, l’artefice di gag e regia occulta, uno dei più grandi comici di tutti i tempi – e Hal Roach, che con lo sceneggiatore e regista Leo McCarey aveva avuto l’intuizione di mettere in coppia un grasso e un magro senza che uno fosse spalla dell’altro. Roach, un fiuto per gli affari e un talento per la macchina produttiva (fu l’inventore tra l’altro delle Simpatiche canaglie), si tenne ben stretti i diritti sui film interpretati dai suoi attori di punta, cosa che provocò la frattura con Stan e lo strappo temporaneo ma doloroso tra questi e Ollie, reo di aver rispettato un contratto che gli imponeva di partecipare senza il compagno a Zenobia, a fianco di Harry Langdon. Un tradimento secondo Laurel.
Un dietro le quinte interessante per chi non fosse a conoscenza dei fatti, ma che tutto sommato serve a rinforzare in chiave drammaturgica il senso di solidarietà tra i due compagni che si scoprono davvero amici, soprattutto Hardy che forse aveva sempre subito Laurel, pensando al cinema come un semplice lavoro, e al set come una pratica da sbrigare prima delle amate partite a golf o una cena tra amici o una scommessa all’ippodromo. Per Stan, invece, il cinema coincise con la vita, tanto da riempire il tempo libero, eccezion fatta per le parentesi (costose) dei tanti matrimoni e delle cause legali a corollario.
E se la parte conclusiva del film si fa struggente, è perché ad aleggiare non sono più due fantasmi cinematografici, ma il mistero di una coppia che sullo schermo era diventata un organismo unico, una combinazione perfetta tra corpi apparentemente a-sintonici, l’incontro tra pulsione e razionalità, tra dadaismo infantile e regolazione adulta. Allora per apprezzare Stanlio e Ollio forse bisognerebbe dimenticarsi di certe eco forzate dai capolavori degli anni Trenta o della vena nostalgica, comunque mai fastidiosa, per considerare il film come l’ultima grande commedia di Stanlio&Ollio (tutto attaccato), quella più intima che termina con un definitivo camera-look di Oliver, che chiede allo spettatore solidarietà per quell’ultimo scherzo di Stanley che ha atteso i sessant’anni suonati per confessargli che mettersi in scena non era altro che un atto d’amore.
Alessandro Leone
Stanlio e Ollio
Regia: Jon S. Baird. Sceneggiatura: Jeff Pope. Fotografia: Laurie Rose. Montaggio: Úna Ní Dhonghaíle, Billy Sneddon. Musiche: Rolfe Kent. Interpreti: John C. Reilly, Steve Coogan, Danny Huston, Shirley Henderson, Nina Arianda, Stephanie Hyam, Susy Kane. Origine: GB/USA/Canada, 2018. Durata: 97′.