Terza prova di Peter Jackson alla regia con la quale si chiude la trilogia splatter del regista neozelandese che tutti conoscono per un’altra sopravvalutata trilogia (Il signore degli anelli).
Viene girato nel ’92 dove gli effetti speciali erano ancora fatti di fastidiose protesi in lattice e marionette meccaniche (animatronics) e per Dio si vede. Dimenticate le patinate produzioni digitalizzate degli ultimi anni, le spettacolari riprese grandangolari del mondo degli Hobbit e Compagnia (bella) dell’Anello e le diciassette statuette che si portò a casa ai suoi tempi.
Splatters è crudo, iconoclasta e ricco di ironia, costato tre milioni di dollari. E’ uno dei film più gore di tutti i tempi, ma la violenza viene rappresentata in modo così demenziale da non risultare mai fastidiosa. Gli sceneggiatori, tra cui lo stesso Jackson, usano il film come scusa per fare una serie di battute così pessime da risultare geniali (tra tutte, la memorabile entrata in scena del Ninja di Dio).
La trama è il classico intreccio horror: love story, sangue e zombie. I due protagonisti (Timothy Balme e Diana Peñalver, rispettivamente Lionel Cosgrove e Paquita Maria Sanchez) si prestano bene all’azione sullo schermo, ma tutto è funzionale solo all’interminabile susseguirsi di gag e scene ormai diventate cult.
Indimenticabile la scena in cui Peter Jackson interpreta un becchino che mangia mentre maneggia un cadavere o il dottore da cui un disperato Lionel si reca in cerca di tranquillanti: un nazista scappato dalla Germania della seconda guerra mondiale perché gli ebrei in quegli anni usavano sterminare i tedeschi (!!!).
Questo film è una perla che trasuda amore per il cinema con autoironia a fiotti (di sangue) e soprattutto un Peter Jackson più convinto che mai.
di Danilo Galli
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