Sacra Famiglia
Padre, madre, figlio (non ha più di dieci anni), la sorella della madre, la nonna (materna?). Vivono in una casa modesta. Pensionata la nonna, lavoratrice part-time la madre, ragazza in vetrina sua sorella, mentre il padre si arrangia e ruba sistematicamente con il figlio nei supermercati. Una sera, dopo aver fatto “spesa”, padre e figlio prendono con sé una bimba di cinque anni che sembra essere stata abbandonata. Lei non ci mette tanto ad adattarsi al nuovo nucleo familiare, in una casa piena di cianfrusaglie ma tutto sommato accogliente. Per qualche settimana nessuno denuncia la sua scomparsa, fino a quando in televisione la madre non lancia un appello disperato, ma la bimba non ha nessuna intenzione di ritornare in una famiglia per nulla amorevole. Non tutto però fila liscio e, quando muore la nonna, emerge una verità sconcertante.
Kore-eda Hirokazu ha ormai dichiarato da tempo il suo interesse per la famiglia non tanto come istituzione rassicurante e luogo di affetti incondizionati. Al contrario, film dopo film, sembra suggerirne la fragilità. Per niente scontate nelle dinamiche interpersonali, le relazioni familiari possono girare a vuoto fino a disintegrare chi le vive, dall’interno, come un cancro che si propaga lungo vene e arterie mescolato nel flusso sanguigno. Legami che se non fossero di sangue non diventerebbero trappole da cui difficilmente si esce illesi. Il cinema di Kore-eda ci interroga: se la famiglia non fosse una verità acquisita, se fosse luogo da cui uscire verso il mondo per trovare affinità elettive e amorose rispondendo a semplici attrazioni?
Come Ozu e Bergman, in Kore-eda un tema ricorre o un tema è rincorso perché produca variazioni e teoremi, che a loro volta lo biforcano e ne suggeriscono sviluppi inaspettati. Funzionalità e disfunzionalità familiari si riverberano nell’opera del regista che ipotizza scenari dove l’amore scorre tra chi si sceglie o precipita in un nucleo non parentale per puro caso. Atti diversi di una stessa lunga pièce, recitata da attori fedelissimi come l’anziana Kirin Kiki (scomparsa da pochi mesi e qui nelle vesti della nonna) o Lily Franky (il padre), attore maturo e capace di dare impressionante profondità a personaggi spesso ripugnanti. Non c’è nemmeno più da paragonare Kore-eda a Ozu o Kurosawa, perché saldati i debiti ormai possiamo a ragion veduta parlare di un poeta con un’estetica propria, che delle perpendicolari di Ozu ha trattenuto il rigore anche quando scardina lo schema, per alzarsi senza preavviso in diagonali che ribaltano i rapporti interpersonali ricostruendo l’inquadratura, rivoluzionandone con delicatezza le misure tra personaggi e spazio. E di entrambi i maestri ha ereditato la naturalezza nel definire le psicologie (soprattutto Kurosawa) e nel dipanare un intreccio che trasforma situazioni e personaggi senza vere scene madri (soprattutto Ozu). La sceneggiatura cesella i dialoghi, informazioni importanti arrivano da frasi fuori campo o in scene che non sembrano preparare lo spettatore allo snodo di senso. Eppure si depositano e lentamente permettono di focalizzare il quadro. Ciò che in Father and Son era ipotizzabile dopo lo scambio fortuito di due neonati – ovvero vivere felicemente in una famiglia non propria – qui diventa invocazione, preghiera disperata, rivoluzione sociale.
Film doloroso, controcanto di Ritratto di famiglia con tempesta, Un affare di famiglia pone più di un interrogativo sulla qualità dei rapporti familiari, sugli equilibri di mutualità che si innescano tra i componenti, sulle carneficine psicologiche che si consumano tra le mura domestiche. E lo fa oscillando sapientemente tra polarità che mettono in discussione l’etica delle relazioni, ponendo lo spettatore al cospetto di personaggi moralmente ambigui e che al tempo stesso si fanno amare per quel sogno soave e sovrareale di un’isola della felicità che non c’è.
Vera Mandusich
Un affare di famiglia non è un affare di stato
Una delle tante frasi fatte che accompagnano la stanca vita familiare è che “i genitori non si scelgono” e che quindi, per il quieto vivere, i figli devono saper sopportare la chiusura mentale degli adulti e ricorrere a un giudizioso, quanto reiterato, compatimento. In taluni ambienti però, tale luogo comune può tradursi in un vero e proprio assoggettamento a imperativi inappellabili, eco di antichi retaggi di cui spesso nessuno degli attori è più in grado di comprendere il senso. Del resto, la famiglia, in pressoché tutte le aree geografiche del mondo, ha rappresentato, e continua a rappresentare, il codice genetico della società, l’istituzione nell’istituzione, sede privilegiata della formazione etica e dell’orientamento gerarchico sociale, dal cui scardinamento verrebbero a mancare, quantomeno secondo una certa mentalità conservatrice, gli equilibri stessi delle relazioni umane e dell’intero sistema politico-economico. Per millenni il primato delle ragioni familiari sulle aspirazioni dell’individuo ha costituito il faro della vita civile e religiosa, trovando nondimeno coraggiosi avversari i quali, dall’Amor cortese alla liberazione sessuale degli anni ‘60 e ‘70, hanno cercato, ciascuno a modo proprio e a seconda delle epoche, di proporre visioni alternative di relazione, non più basate sulla morale pubblica, sul decoro o sull’interesse di casata, bensì sulla libera adesione delle singole persone, senza riuscire però a evitare di generare a loro volta luoghi comuni in senso contrario, spesso sulla spinta della mera opposizione a un divieto, come già sul finire del ‘500 il grande William Shakespeare aveva ben intuito, tanto da costruire su tale meccanismo l’architettura narrativa della più romantica delle sue tragedie: Romeo e Giulietta. Ha perfettamente ragione W. H. Auden quando afferma che l’amore dei due giovani veronesi si nutriva soltanto dall’ostacolo rappresentato dalla rivalità delle rispettive famiglie e che non avrebbe quindi resistito alla dura monotonia della quotidianità matrimoniale.
Il regista giapponese Kore-eda Hirokazu, dopo i riconoscimenti di pubblico e critica ottenuti con Father and Son, Little Sister e Ritratto di famiglia con tempesta, torna ad affrontare la complessa tematica della famiglia; e lo fa a partire dalle contraddizioni insite in una delle culture più tradizionaliste al mondo, senza però limitarsi a proporre, come potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale, un modello idealistico di focolare domestico basato sulla libera scelta dei legami parentali, in cui i figli scelgono i genitori e i genitori i nonni, e il vincolo affettivo abbatte i concetti di bene e di male giustificando la menzogna e il crimine, bensì indagando le stesse dinamiche dell’utopia la quale, quantunque possa nascere da un disperato bisogno di giustizia e di amore non può fare a meno di provocare a sua volta disarmonie e incoerenze.
Superando i limiti della cruda critica sociale di Kurosawa e di Ozu, Kore-eda mette in scena i limiti del pensiero romantico, mostrando come anche il sentimento più puro, per sopravvivere a lungo, necessiti di punti di riferimento, di regole o, come avrebbero detto – sulla scorta di Seneca – i mistici medievali di discretio, vale a dire quella commistione di affetto e razionalità indispensabile perché la scelta possa dirsi autenticamente libera, basata cioè sull’effettivo merito dell’oggetto amoroso, e non sul semplice assoggettamento a una pulsione emotiva che, per quanto naturale e spontanea possa apparire, altro non è che una nuova, aggiogante tirannide. È ciò che comprende il piccolo Shota (Sosuke Ikematsu) di fronte alla scelta e al rifiuto di istruire la sorellina nell’arte del furto, mandando così in cortocircuito l’utopistico assetto familiare. Kore-eda mette in scena il paradosso della libertà, il circolo vizioso degli affetti, con la padronanza narrativa del drammaturgo raffinato capace di esibire i conflitti di forze e il fluire degli eventi e convogliare il tutto in un’unica traccia, nella cui linearità e semplicità riecheggia l’irreprensibile fissità di un mondo che non cambia e non può cambiare, proprio a cagione dell’assoluta interdipendenza delle parti in gioco, emozioni comprese. Un affare di famiglia non è l’elegante riproposizione di una concezione pessimistica della vita, cui il cinema orientale ci ha abituati: è la poetica esaltazione della fragilità dei sentimenti, l’apologia di un’umanità ai margini che trae energia vitale dalle sconfitte che subisce; e resiste, con quella assurda e incomprensibile tenacia che tiene insieme le stesse coppie tradizionali, le quali, come direbbe Gaber, «senza dar colpa all’epoca e alla storia», senza assoggettarsi all’aleatorietà dell’opinione o all’oscillazione dei sentimenti, difendono la gioventù di una scelta, «non per una cosa astratta come la famiglia», ma «per una cosa vera come la famiglia».
Manuel Farina
Shoplifters
Ecco mi siedo, la luce scende, e mi trovo per la terza volta nel giro di qualche anno, davanti a un film che parla di famiglia e sentimenti nella modernità giapponese, dello stesso autore Kore-eda che in precedenza mi aveva raggiunto e toccato, superando distanze culturali abissali. Quest’ultimo è un film già celebrato con la Palma D’Oro, non saranno dunque le mie opinioni a valorizzarlo. Però per me stesso diventa un appuntamento con una visione che si rinnova, su uno stesso tema, un tema che sento fortemente e su cui torno a interrogarmi, ed è per questo che vivo l’attesa di questa nuova opera: non so anticipare se sarò ancora in sintonia con la voce dell’autore o se ci saremo irrimediabilmente allontanati.
Mi metto in ascolto.
Le prime scene sembrano confermare il titolo internazionale, Shoplifters, taccheggiatori. Fin da subito c’è però qualcosa di aereo nel linguaggio, qualcosa di consapevole, che mi ricorda certe scelte dei punti macchina del cinema neorealista, la buona abitudine di accompagnare i personaggi con delicatezza, ma all’interno di uno schema rigoroso, che non aggiunge leggerezza alleggerendo la macchina o rendendola acrobatica, ma facendo accadere, nell’inquadratura e nei fuori campo, nel piccolo e nel grande, cioè a livello di gesti e parole rarefatte, e nella costruzione drammaturgica più generale. Movimenti di macchina ben scelti, pochi, e poi tanta camera fissa ben costruita. Linee nette verticali e orizzontali all’interno di negozi e di un appartamento, punto macchina di molto sotto la linea dello sguardo di un adulto a seguire i più piccoli. E’ un inizio che mi placa, e davvero mi sintonizza. E dopo, c’è lo scorrere di una vicenda che tiene per mano se non il favoloso, diciamo almeno l’improbabile (ma plausibile) e con il corpo delle immagini lo riconnette a piedi ben piantati a terra, nella concretezza di una difficoltà del vivere di una periferia urbana come tante altre, di personaggi difettosi e difettati, che sbagliano, che non sono del tutto ingenui né tantomeno “per bene”.
Una bambina che viene raccolta nell’intento forse di salvarla dal freddo e dall’abbandono, apre la strada all’esplorazione umana di una famiglia in apparenza del tutto qualunque, che vive riunita nella comune povertà a casa della nonna: un padre e una madre, una figlia grande, un bambino e appunto una nonna brontolona e tradizionalista. Lavorano, qualcuno più convintamente, qualcun altro meno, si dedicano al taccheggio nei negozi, si fanno compagnia con dolcezza e affetto, oltre che libertà.
Potrebbe essere un film di Mike Leigh. O dei Dardenne.
Sembra esserci solo questo elemento a rompere la monotonia, questa bambina raccolta, ma il viaggio a poco a poco si distorce, si fa più complesso: incongruenze appena accennate ci portano con calma ma inesorabilmente verso la scoperta di una dimensione famigliare assolutamente spiazzante. Un annodarsi del punto di vista offerto all’inizio del film che arriva a svelare una condizione umana paradossale che ci interroga ancora una volta – come in precedenza Father and Son, e in altro modo anche Ritratto di famiglia con tempesta – su che cosa voglia dire davvero essere padri e madri, cosa voglia dire essere figli e figlie, dove si sia nascosto il tono di grigio che separa il bianco dal nero, ciò che è, da ciò che non è. Sembra che l’autore abbia ripreso dopo anni lo stesso filo dei pensieri e dei sentimenti, allargando la riflessione, sottoponendola a una critica più stringente, messa sotto scacco da una narrazione quieta ma implacabile.
Può una famiglia artificiosa, spinta alla coabitazione e alla coesistenza da interessi bassi, dalla mera convenienza, se non addirittura da una complicità criminosa, tradursi nel concreto in una famiglia vera, piena di amore e affetto, più solida e solidale delle famiglie tradizionali, naturali? Può il respiro corto della dipendenza reciproca generare spazi di libertà (e di felicità) inattesi? Può un bambino spinto a rubare nei negozi, scoprire in quella stessa famiglia la consapevolezza dell’essere figlio, di sentirsi figlio, oltre le regole ovvie della discendenza? Nel mondo che disegna Kore-eda amarsi sinceramente ci appare così naturale e così semplice, eppure così raro: equilibrio che si regge su una fragilità di fondo, proprio per questo capace di nutrirsi di mutevoli disequilibri.
Di questa pellicola, oltre alle grandi domande, declinate con una profondità ammirevole, affascina e incanta la capacità di raccontare per piccoli episodi quotidiani, piccole-grandi verità del vivere insieme, con una intimità e vicinanza ai personaggi che diventa poesia, scoperta. Un racconto corale che si allarga al mondo, a partire dal contesto urbano, al ritratto di una periferia in apparenza anonima. Anche in questo uno scarto, una presa di posizione, e là dove troppo spesso si enfatizzano anche visivamente gli inestetismi, la volgarità, a volte la brutalità, la rotta del film ci porta altrove, dentro una ricerca della bellezza, che non è falsificazione da copertina, e nemmeno semplificazione favolistica. Si coglie invece l’intenzione di trovare uno sguardo più attento, meno stereotipato, che sappia vedere quegli angoli di delicatezza, di calma, di purezza che anche le periferie urbane più disagiate custodiscono per chi li sa trovare.
Massimo Donati
Un affare di famiglia
Sceneggiatura, regia e montaggio: Hirokazu Kore-Eda. Fotografia: Ryuto Kondo. Musiche: Hosono Haruomi. Interpreti: Kirin Kiki, Lily Franky, Sôsuke Ikematsu, Mayu Matsuoka, Sakura Andô, Jyo Kairi, Kengo Kôra. Origine: Giappone, 2018. Durata: 121′