Quando guardi un film come questo, non sai mai cosa scrivere. I pensieri si accumulano nella testa come un indecifrabile garbuglio, una grande scala di Escher dove ogni tracciato ricongiunge il viandante al punto di partenza o si inabissa per ulteriori livelli sfalsati, ciascuno proiettato in una prospettiva leggermente diversa, in un paradigma appena distorto. È un’esperienza polisensoriale, Run All Night, un prisma luccicante che muta sembianza a seconda dello stato d’animo, che può leggersi da più punti di vista secondo interpretazioni complementari o discordanti. Jaume Collet-Serra è un bel furbacchione, uno spagnolo trapiantato nel sistema hollywoodiano che prima di altri, o comunque meglio di molti, ha capito che l’action non è soltanto un’operazione da azzeccagarbugli di poco talento letterario, quelli che giustappongono sparatorie e inseguimenti rocamboleschi giusto per far quadrare il cerchio e riempire i buchi di sceneggiatura. No, lui gioca con il punto di vista, il POV come si dice in gergo tecnico, cioè l’identificazione tra lo spettatore e la materia filmica, che cambia con lo svelamento del mistero, che si trasforma con il cambiamento dell’identità. Era così per la sua prima pellicola importante, The Orphan (2009), è stato così durante il sodalizio con Liam Neeson. Qualcuno di voi ricorderà di sicuro quei due straordinari esempi di arte cinematografica che erano Unknown – Senza identità (2011) e il più recente Non-Stop (2014). Neeson era nessuno e centomila, una persona priva di forma che assumeva sembianze differenti per ogni svolta narrativa, che stravolgeva il proprio personaggio in base a ciò che le circostanze, per quanto improbabili fossero, finivano con il suggerire.
Qui lo vediamo nella parte di un alcolizzato costretto a elemosinare soldi presso la famiglia del suo vecchio amico, un boss della mala irlandese, Shawn Maguire (Ed Harris), con un figlio particolarmente perfido che lo costringe a scimmiottare Santa Claus durante la celebrazione del Natale. Neeson fa la figura dello scemo, si presenta ubriaco alla festa, cade nel caminetto ustionandosi una mano, fa proposte oscene alla rossa moglie di un amico e, dulcis in fundo, bestemmia come un turco di fronte agli infanti: “Bambini del cazzo! Cristo!” Ma stiamo attenti, perché il timone lo regge quell’altro geniaccio di Brad Ingelsby, sceneggiatore con l’inchiostro al posto del sangue. Ve lo ricordate, Out of the Furnace – Il fuoco della vendetta (2013) con Woody Harrelson e Christian Bale? Ecco, ci siamo capiti. Neeson è l’attore mutaforma per eccellenza, quello che d’improvviso si scopre terrificante sicario della malavita con diciassette omicidi sul groppone. Cadaveri di poveracci, molti dei quali amici, parenti o conoscenti, che si sono trovati a fare le cose sbagliate con le persone sbagliate. Il rimorso lo divora, è vero, gli incubi lo attanagliano durante notti senza fine. Ma un killer professionista resta tale anche se in preda all’ottundimento dell’alcol, e quando il rampollo della pericolosa famiglia Maguire combina un casino con un’altrettanto folle banda di albanesi, il nostro eroe non resta a guardare. In breve succede questo: Maguire jr. (Boyd Holbrook) tenta di convincere il padre a trattare eroina con gli slavi, quello si rifiuta e il figlio ammazza i soci in affari che gli si presentano alla porta per chiedere indietro i soldi. Il figlio di Neeson, Mike (Joel Kinnaman) è invece un povero disgraziato che tenta di rifarsi una vita lontano dai guai. Di giorno si allena come pugile, di notte guida la limousine per Maguire jr. Quando Maguire jr. ammazza gli albanesi, Mike assiste all’omicidio. È un incomodo, e come tutti gli incomodi va eliminato.
Run All Night, corri tutta la notte. È quello che succede quando il fuoco ti morde le chiappe, quando le colpe ti inseguono e tu non puoi fare altro che pareggiare i conti prima che sia troppo tardi, prima che il sole sorga e non ci sia più tempo per sistemare le cose. Di primo acchito, verrebbe voglia di scomodare La promessa dell’assassino (2007) di David Cronenberg, stesso gusto per la violenza barocca, stessa cura entomologica per queste famiglie disfunzionali, che affondano le radici nello spargimento di sangue, che si nutrono dell’onore di antiche carneficine. Ma poi, a ben pensarci, la regia di Jaume Collet-Serra si fa più sboccata, frastornante, aperta a mille sapori. Quella di Cronenberg è una geometria rettilinea, antropocentrica, centripeta; quella di Collet-Serra è al contrario curvilinea, fatta di segmenti frastagliati, di linee di fuga. Non c’è un centro, ma un processo entropico di espansione, uno spingere verso l’esterno, oltre le colonne d’Ercole dell’annientamento. È allora il destino il grande mattatore della pellicola, l’imperscrutabile fatum che tutto controlla e a cui tutto sussume. Gli errori dei padri ricadono sui figli, ma sono proprio i padri a dovervi porre rimedio anche se questo comporta il compimento di crimini sempre peggiori, sempre più inarrestabili. Una lucidità del genere, un’idea di cinema (e di scrittura) che sta oltre il cinema stesso, un approccio quasi metafisico ai meccanismi dell’arte narrativa, la si può rintracciare forse soltanto nello spirito scandinavo, tra le genti nordiche, nelle Gesta Danorum di un Nicolas Winding Refn, quello che in Solo Dio perdona (2013) aveva riscritto la storia degli atridi attraverso la mediazione del pensiero mafioso. Liam Neeson ha una notte per recuperare il rapporto con quel figlio che non l’ha mai accettato come padre, una sola notte per redimersi e consegnare il proprio testamento spirituale (la lista di tutte le persone che ha ammazzato) al detective che da anni gli dà la caccia (Vincent D’Onofrio). In Only God Forgives era invece il personaggio di Julian (Ryan Gosling) a cercare la redenzione attraverso la morte della madre e la punizione corporale con cui concludere la propria travagliata vicenda di figlio suo malgrado. In ogni caso: da come sposti gli addendi, il risultato rimane invariato. Run All Night è innanzitutto la storia di un padre che cerca il perdono per mezzo dell’innocenza del figlio, e di un figlio che imparerà a perdonare i delitti del padre attraverso la brutalità di quegli stessi delitti.
Marco Marchetti
“C’é ancora tempo”: il valore della parola, l’emozione del perdono
Un linguaggio semplice, concretizzazione delle mille sfumature comportamentali che impregnano il sostrato familiare dell’uomo, rivelando la struttura dell’inquieto rapporto padre e figlio.
Rendere la verità attraverso la parola è complicato. Sulla tela dello sceneggiatore Brad Ingelsby possono intervenire in qualsiasi momento, durante la creazione della propria opera, variabili inaspettate, colori dissonanti, che andrebbero a sminuire il valore del progetto nella sua interezza. Come evitare, dunque, di cadere nella trasposizione scontata dell’ennesimo scontro generazionale e ideologico tra un padre assente e un figlio che disconosce il perdono? Perché il prodotto finale risulti valevole è necessario che i contenuti combacino perfettamente col contenente. La sceneggiatura, in altre parole, così come il resto dei costituenti che prendono parte alla realizzazione della pellicola, necessita di un contesto preciso al quale adeguarsi.
La regia soddisfa pienamente tali esigenze, rivelando la trasparenza di una nuova metodologia d’approccio al cinema, in un’integrazione inaspettata tra l’azione e il sentimentalismo. Il dialogo diventa linea guida alla comprensione di un disegno più grande che trova vita nel concetto di Perdono. La parola, intrisa di potenza catartica, diventa la forza risolutiva che illustra in ordine progressivo la disperazione di una famiglia, la rottura e il lento riavvicinamento; un riavvicinamento che deve risolversi attraverso la sofferenza, metafora della espiazione del peccato attraverso l’umiliazione dell’essere.
Il Jimmy Conlon di Liam Neeson è la personificazione del peccatore in cerca di salvezza, colpevole d’aver abbandonato il figlio, Mike, rappresentazione, a sua volta, della pena da scontare, giacché sta a lui accettare la redenzione del padre. L’anima di Jimmy è macchiata dalle colpe passate, tormentata dai ricordi delle vite sottratte per conto del gangster e amico Sean Maguire. I fantasmi infestano i ricordi e l’alcol annega la sofferenza; il fumo di ogni sigaretta accesa sembra la mano di un dispiacere che circonda, silenzioso, le iridi colpevoli dell’allora killer professionista, ora padre dimenticato. “Cosa ho fatto?”, sembra sussurrare il protagonista. La domanda è ovviamente retorica. Jimmy è cosciente dei suoi sbagli e vede con chiarezza quel limite che ha superato da tempo, come essere umano e come padre.
Mike, invece, è diverso. La sua unica verità è l’incontrastabile amore verso la sua famiglia; il suo solo legame col passato, invece, è circoscritto dalle corde di un ring. Insegna boxe ai giovani senza famiglia, li aiuta a non dimenticare, a impiegare la rabbia in qualcosa di buono, a convogliarla in un istinto di difesa, ma più che aiutare gli altri, sembra solo aiutare se stesso a reprimere il dolore.
La riconciliazione di queste due realtà, opposte e tuttavia legate si manifesta nelle conseguenze di un affare finito male. Jimmy, non più killer da parecchi anni, si trova costretto a uccidere Danny Maguire, mentre quest’ultimo è sul punto di sparare a Mike. L’uccisione dell’unico figlio dell’amico Sean, darà il via a una serie di eventi concatenati che porterà il vecchio Conlon a riallacciare i rapporti col figlio, nel disperato tentativo di proteggerlo dalla caccia all’uomo organizzata da Maguire, perpetrata in nome di una vendetta che ricorda la legge del taglione; un figlio per un figlio.
È eccezionale l’approccio della scenografia (Sharon Seymour) e della fotografia (Martin Ruhe). La sinergia e la collaborazione di entrambi questi elementi, essenziali alla buona riuscita dell’opera, mette in scena un gioco di luoghi e di luci di sorprendente intelligenza e intuizione. Man mano che ci avviciniamo alla redenzione di Jimmy, l’ambientazione delle riprese diventa più lucente, più propensa alla speranza. Dalla prima ripresa, fissata nella sporcizia di un pub maleodorante, arriviamo a una tavola calda e da lì finiremo in un bosco. È interessante come si possa ricercare anche una sorta di analogia religiosa nella scelta del bosco per la ripresa finale: la luce artificiale della tavola calda viene sostituita dalla luce divina.
La notte segna l’inizio e la fine della vicenda: dall’uccisione di Danny alla fuga per la sopravvivenza, dalla fuga alla redenzione di Jimmy. Sul volto del vecchio Conlon non c’è spazio per le lacrime, eppure la sua anima si offre come un libro aperto allo spettatore. Lo vediamo attendere il figlio fuori dalla porta, sotto la piogga; gli è proibito entrare in casa di Mike pertanto resta fuori, come un cane, osservando le nipoti che non ha mai conosciuto. Il volto di Neeson è un colpo al cuore, la sua voce, debole, è come una coltellata; varrebbe la pena pagare il biglietto solo per esser testimoni della scena.
Jaume Collet-Serra ha realizzato un capolavoro, una catena di causa e effetto basata sugli errori umani, una poesia cruenta, che sembra sussurrarci a bassa voce: “C’è ancora tempo, c’è ancora tempo”.
Mattia Serrago
Run all night
Regia: Jaume Collet-Serra. Sceneggiatura: Brad Ingelsby. Fotografia: Martin Ruhe. Montaggio: Craig McKay, Dirk Westervelt. Musiche: Tom Holkenborg. Interpreti: Liam Neeson, Joel Kinnaman, Ed Harris, Genesis Rodriguez, Boyd Holbrook, Vincent D’Onofrio, Nick Nolte, Common. Origine: USA, 2015. Durata: 114’.