Povertà di ricami sentimentali, cromaticità puntuali e inquadrature costruite con il goniometro. Me and Earl and the Dying girl (Quel fantastico peggior anno della mia vita) possiede un contorno che esprime molto di più delle parole del protagonista. Per noi lui è Greg Gaines (Thomas Mann), il “me” del titolo. Greg è un neutrale, l’identità universale della non-identità, un qualsiasi membro della middle-class di Pittsburgh. Sopravvive alla giungla liceale senza essere il vero amico di nessuno. Earl (RJ Cyler) è il suo “co-worker”. Si ostina a definirlo “collega” per non essere travolto, nemmeno con lui, nel labirinto delle amicizie. Insieme girano piccole rivisitazioni di grandi classici cinematografici – sotto stimolo degli esotici gusti culturali del padre di Greg. La Dying girl infine è Rachel (Olivia Cooke). Le viene diagnosticata la leucemia, e Greg sarà costretto dalla madre a passare del tempo con lei. Rachel è acuta e sarcastica, e non sopporta la commiserazione. Tanto meno un ragazzino sconosciuto della sua età, che potrebbe proiettarla in imbarazzi, fra coetanei, per colpa della sua malattia.
Me and Earl and the Dying girl vince l’US Dramatic Audience Award e il Grand Jury Prize al Sundance Film Festival 2015. Sbarca anche all’ultimo Festival di Locarno. Raggiungerà, il prossimo 3 dicembre, le sponde italiane. Tratto dall’omonimo libro di Jesse Andrews, è un film divertente, pungente e toccante. Un mix di ingredienti adolescenziali e di puntuale interesse cinefilo. Ironia unica nel suo genere.
Il titolo è già d’omaggio: sulla stessa metrica di Me and you and everyone we know di Miranda July (Camera d’Or del 2005). La fabbrica filmica dei protagonisti si chiama come loro, la Gaines-Jackson Films, e si avvale di un telefonino e di una Bolex 16mm come strumenti di ripresa. L’urgenza narrativa di Greg ed Earl è puramente autoreferenziale. Questa viene messa in crisi dalla richiesta della coetanea Madison (Katherine C. Huges) di girare un film per l’amica Rachel. Così i due collaboratori decidono di dedicarle un documentario polifonico, piuttosto triste, sulla sua auspicabile guarigione. E su quest’ultima opera si rompe la collaborazione dei due ragazzi, che costringe Greg ad affrontare un lavoro più personale per Rachel. Il film di Greg è un’animazione astratta: un film intenso che restituisce partecipazione, devozione, disciplina tecnica e immaginazione. Offre a Rachel quell’astrazione evocativa del suo stato di salute, così reale e allo stesso tempo irrappresentabile.
Alfonso Gomez-Rejon, ex assistente di Martin Scorsese, supervisiona la produzione dei popolari Glee e American Horror Story, ma aggiunge nel suo portfolio un lavoro di posata intelligenza e direzione recitativa. Potremmo sapere tutto dai desktop di quei teenager (i diari non li scrivono più); ma quel “tutto” viene lasciato da parte. Li si conosce attraverso il loro contorno: le camerette, i vestiti, i gruppi di appartenenza. Giochi di camera energici e ricchi di humour – niente di nuovo per i sostenitori della politica visiva di Wes Anderson.
Riferimenti vivissimi alla storia del cinema: la madre di Rachel come Mrs Robinson; motivi morriconiani in materia musicale; Brew Vervet and A Sockwork Orange come ironico sguardo sui classici; e quella parrucca di Rachel, omaggio all’eterno Mike Nichols.
Il regista sa quindi come colpire: con una storia, attraverso l’individualità, di coscienza comune. Ci fa affrontare un crescendo di emozioni e sentimenti, che Greg aveva volontariamente evitato fino a quel momento. Diventerà un sé più completo, vivo, perfezionando le storie delle vite dei suoi spettatori. Stilisticamente parlando, un compendio tecnico tale da non targare di serie B la criticata produzione del web.
Giulia Peruzzotti
In stile Sundance… quasi
Per anni il Sundance Film Festival di Robert Redford è stato sinonimo del miglior cinema indipendente che si potesse scovare negli Stati Uniti, presto però è stato coniato anche il termine “sundanciano” che ha preso un’accezione leggermente negativa. Nel gergo dei blogger cinematografici descrive tendenzialmente una commedia, spesso opera prima con attori esordienti, dal sapore agrodolce, eccentrica e un poco sballata, ma che comunque abbia delle caratteristeche solari e positive. Little Miss Sunshine, Eagle vs Shark, Wristcutter, Napoleon Dynamite giusto per citare alcuni titoli che hanno avuto una certa visibilità anche nel nostro paese. Me and Earl and the Dying Girl, opera seconda di Alfonso Gomez-Rejon, ha tutti gli elementi tipici del film da Sundance (dove per altro ha vinto ben due premi, miglior film del concorso americano e premio del pubblico), ma ha il giusto mix per costruire una storia coinvolgente ma non ricattatoria su un tema delicato come la malattia allo stadio terminale.
Il film gioca a bilanciare emozioni apparentemente facili con spruzzi di grande creatività, espressa da Greg e Earl attraverso le piccole parodie (tra la parodia e lo sweeded movie di Michel Gondry), in cui A Clockwork Orange di Kubrick diventa un calzino meccanico in A Sockwork Orange. C’è dunque speranza nel mondo degli adolescenti degli anni ’10, la creatitivà non è stata uccisa da smatphone e console per videogame, nasce e si esprime anche quando si è costretti a letto da una lunga malattia.
Forse quello che rende differente il film di Gomez-Rejon da altri film in “stile Sundance” è una certa freddezza calcolata nel trovare un elemento di sceneggiatura che giustifichi quei passaggi che altrimenti avrebbero il sentore di essere troppo adolescenziali e immaturi. Non c’è pietismo, non c’è autocommiserazione nel mostrare il rapporto tra un casuale “care-givers” e la sua malata, nonostante la voce over per gran parte del film costituisca una sorta di accordo col pubblico che facilmente però verrà tradito..
Sentiremo nuovamente parlare di Thomas Mann e Olivia Cooke, i due ottimi protagonisti riescono a dare un’aura di verità ai rispettivi ruoli, cosa da non sottovalutare in un film dove è importante avere la sensazione di potersi immedesimare in personaggi veri.
Carlo Prevosti
Me and Earl and the Dying girl – Quel fantastico peggior anno della mia vita
Regia: Alfonso Gomez-Rejon. Sceneggiatura: Jesse Andrews. Fotografia: Chung-Hoon Chung. Montaggio: David Trachtenberg. Musica: Brian Eno, Nico Muhly, Randall Poster. Interpreti: Thomas Mann, R.J. Cyler, Olivia Cooke, Nick Offerman, Connie Britton, Molly Shannon. Origine: USA, 2015. Durata: 104’.