Forse la divisione di Nymph()maniac in due volumi non é stata del tutto scorretta. Probabilmente le esigenze di distribuzione della pellicola hanno comandato sulla scelta artistica – notoriamente massacrata anche dalla censura. Inevitabile riconoscere le anime distinte dei due volumi. Il primo, sostenuto dall’impeto giovanile di una donna alla scoperta del mondo, sregolatezza finalizzata alla conoscenza del sé (cfr lo speciale: https://www.cinequanon.it/speciale-nymphmaniac-vol-i/ ); il secondo, l’età avanzata, la stanchezza di un corpo maturo ma anche devastato, la convivenza con un problema che grava sulla confusione della vita.
“Il sentimentalismo è una bugia“, e “la sessualità è la più grande forza negli esseri umani“. Joe sperimenta un crescendo di esperienze sessuali che, circoscritte nella sua dipendenza, non sfociano mai in morbosità specifiche. Se non quando si giunge alla violenza, che stabilisce una catena di dolore: K su Joe, Joe su Marcel e Jerome, la sua famiglia. Le visite notturne da K provocano l’isolamento affettivo di Joe, e la terapia la spoglia della vita materiale. Il primo spiraglio di sentimento sarà la frequentazione di P, figlioccia e poi amante, vittima della sua storia e carnefice nella violazione del loro rapporto omosessuale. “Sei cattiva“, P adolescente si sfoga, consegnandole la pistola, come nei confronti di una madre. Una donna così cattiva da dover sopportare la vista del tradimento nel vicolo buio. I suoi unici affetti si vendicano su di lei con la stessa violenza con la quale lei aveva affrontato il sesso. Spiegata quindi l’inanimità del corpo ferito a terra: in mancanza di un senso salvifico Joe si annulla come essere umano. Ma insultata, sfidata, picchiata, assiste ad un’imperfetto 3 + 4.
Seligman rimbocca le coperte a Joe. Le cede il testimone, il ruolo asessuato “interpretato” per una vita intera. Offre il suo giaciglio per poi uscire dalla stanza chiudendo la porta. Per poi rientrare, a ruoli invertiti. Joe, ancora una volta, reagisce d’impulso. Niente di più.
In questo mondo di naturali approfittatori, l’istinto di sopravvivenza vince su tutto. E quale valore può assumere l’ipocrisia di fronte ad una naturale ed imprescindibile inclinazione?
Decorazione tutta particolare di questa storia è la natura. Elemento visivo che si insinua nel ricordo, si evolve attraverso la grana cinematografica – che risolve ogni intervento didascalico di passaggio del tempo – e nella proporzione fotografica. Da confusi dettagli di chiome rigogliose si procede fino a campi totali con tronchi sani, poi spogli, poi piegati dalle condizioni atmosferiche – mai spezzati. Donna forse nostalgica di una purezza infantile presto bruciata, ricorda serene passeggiate nel parco col padre e finisce per identificarsi in un solitario albero in cima alla montagna.. passando attraverso uno sguardo alla finestra sulle chiome mosse dal cattivo tempo. Una circolarità schellinghiana nel quale lo spirito pone la natura e la natura fa emergere lo spirito.
Natura, vita e istinto si sovrappongono fra presente raccontato e vissuto. Lo spiraglio di sole raggiunge sempre la più nascosta finestra d’appartamento. E si fa subito mattina.
Giulia Peruzzotti
Le mille e una notte di Von Trier
Quante strofe cercano una rima nell’ultimo film di Lars Von Trier. Eviterei di parlare di un volume primo e un volume secondo, ma di un’opera in capitoli, la cui divisione in due blocchi potrebbe avere ragioni diverse, tutte probabili (perché qui si parla di Von Trier, che arriva alla sua verità attraverso la menzogna e il raggiro, come riesce solo ad un artista): gli standard di lunghezza ormai acquisiti, il lancio promozionale, l’equivoco del porno (con tutti i topoi del genere: sesso orale, anale, di gruppo, con i neri, poi lesbo, poi sadomaso, ecc.) d’autore (ma non siamo per nulla nei territori di Michael Ninn, ad esempio), lascerebbero supporre una furba operazione per arrivare a quanti più possibili spettatori. Ma non è nemmeno questo il punto.
Ricompattiamo il film nella sua versione italiana censurata (anche questa una strategia di marketing?), in attesa che il DVD tra poco in commercio ci restituisca quei falli fuori campo, esclusi dal grande schermo in sala. Ripartiamo dalla cornice che vede protagonista una donna seviziata e lasciata quasi morta in sala e l’uomo che l’ha salvata; ripeschiamo a memoria i primi capitoli di questo racconto fatto di tanti racconti brevi per adulti, che tanto ricorda la trilogia della vita pasoliniana, ma anche il rovescio di Salò. Viene subito da pensare a quanto folle fosse il giudizio di chi etichettava il regista danese come misogino. Semmai qualcuno è stato ridicolizzato nel cinema di Von Trier, questi è l’uomo, il maschile, la pochezza del maschile direi, così decisamente meschino e schiavo di visioni preconcette e di un ruolo sociale che ne ha rallentato la dilatazione dello sguardo sul mondo, ovvero la sua comprensione. Melancholia ne aveva sancito una volta per tutte la sconfitta, relegando il maschio ai margini di un fenomeno incomprensibile e che richiedeva empatia totale con il creato, il coraggio di guardare nella fine per tentare una risposta ai grandi interrogativi che scuotono le nostre esistenze.
Joe potrebbe non essere affatto ninfomane, ma una straordinaria storyteller, capace di raccordarsi sulle fantasie banali del suo piccolo dio (il regista), per reiterare i luoghi del porno (sottogenere che per diventare “d’autore” ha finto a tratti di inventarsi delle storie – parentesi grottesche tra un amplesso e l’altro – patinate dalla bella fotografia), scommettendo di arrivare al grande pubblico come nessun altro autore aveva mai fatto prima (non dimentichiamoci i ridicoli “osceno” timbrati sui cazzi inquadrati da Larry Clark). Ma supponendo che il burattinaio abbia davvero intravisto la ninfomane e le abbia poi chiesto di prestarsi al racconto per tappe delle sue avventure, ciò che viene messo in scena è il gioco della provocazione tra una donna che la natura profonda ha reso sola e un uomo solo che ha rinunciato alla propria natura: un autocastrato che accoglie un corpo che, per sentire la vita fluire, ha perduto via via il senso del vivere e le sensazioni del sesso. A confronto due corpi/cervelli diametralmente opposti. Il contrasto: come è tipico del cinema del regista danese, sin dalle origini, ancora prima di diagnosticare la (fasulla) fine del cinema con il manifesto Dogma 95, già redatto per essere confutato dopo, per creare una scuola che non poteva farsi scuola senza sprofondare nel nulla, oggetto dadaista quasi. Ancora prima con Epidemic, poi Europa: tutti processi spiazzanti nella scrittura ambigua, incapace di resistere alla tentazione di contraddire spesso significanti e significati. Un gioco che ha sempre avuto bisogno del pubblico e della critica per funzionare, ma anche degli apparati come i festival (vedi l’espulsione da Cannes, dopo le dichiarazioni che precedettero Melancholia). Il cinema nella sua totalità che si sovrappone alla vita, ogni film un capitolo di un’opera unica di cui fa parte la vita stessa dell’autore, che alla fine non fa che raccontare se stesso, la sua visione del mondo e tutta la complessità che questa contiene (fobie, idiosincrasie, rimossi, retaggi culturali, ecc.).
E sugli opposti si regge anche Nymph()maniac, che contrappone letture alte di comportamenti bestiali (secondo il senso comune), sovrapponendo agli amplessi di Joe, per vie analogiche e/o metaforiche, filigrane di origine mistico-religioso-filosofico, se non addirittura scomodando i legami segreti che intercorrono tra i numeri, da Fibonacci alla sconcertante promiscuità dei numeri primi, generati senza una logica apparente da amplessi (addizioni) tra numeri scomponibili. Ma a furia di scomporre le avventure scabrose di Joe per ricomporle in senso geometrico-cubista, non sempre la comprensione si fa possibilità concreta. Non per il pubblico, che segue paziente Seligman fino alle derive interpretative più astratte; non per Seligman stesso, costantemente ancorato a un libro della sua immensa biblioteca alessandrina per non perdersi nei labirinti di Joe, che immobile sulla branda dello stanzino claustrale dove l’ha adagiata il suo ospite, trasforma in parole la storia dei movimenti vertiginosi del suo corpo, spalancando un mondo di cui l’uomo non possiede che coordinate letterarie: il sesso, ma anche la dipendenza come concetto, che si fa prigione e alienazione, stato mentale prima che fisico, ma che attraverso il fisico si esprime in tutta la sua drammaticità. Del resto il corpo della Gainsbourg non poteva non arrivare a quest’apoteosi dopo Antichrist. L’ipotesi di essere strega suffragata dalla ninfomania, dichiarata e accettata, per essere trascesa non certo per pentimento o redenzione religiosa, ma semmai per ricollocarsi al mondo dopo aver ricusato la famiglia (la possibilità di essere madre) e aver sviscerato (tirato fuori dalle viscere) tutto il potenziale erotico del proprio corpo (fino alla violenza), lacerando gli accessi verso intestini, utero, esofago.
Joe diventa l’emblema dell’impossibilità della conoscenza, tanto quanto lo è Seligman, nonostante i suoi testi: simili e bulimici, esortati a oltrepassare i limiti di corpo (l’una) e mente (l’altro), forzano una verità che rimane oscura e che deve per forza avere a che fare con il nostro essere al mondo. Per questo Seligman non può che uscire annientato dal racconto a due di Nimph()maniac, perché abiura la strada percorsa spostando la soluzione dell’enigma sotto il basso ventre e contraddicendo l’assunto che mai si sarebbe inginocchiato davanti a Dio e al sesso. Non è bastata l’intera enciclopedia del mondo per capire che la vagina di Joe non porta in nessun paradiso, perché non esiste nessuna vagina di Joe, fuori dai racconti di Joe.
Alessandro Leone
Nymphomaniac vol. II
Sceneggiatura e regia: Lars Von Trier. Fotografia: Manuel Alberto Claro. Montaggio: Molly Marlene Stensgaard. Interpreti: Charlotte Gainsbourg, Stacy Martin, Stellan Skarsgard, Christian Slater, Willem Dafoe, Shia LaBeouf, Jamie Bell. Origine: Danimarca/Germania/Regno Unito/Belgio. Durata: 122′.