Gioia (Joy), tristezza (Sadness), rabbia (Anger), disgusto (Disgust) e paura (Fear) sono cinque emozioni che occupano la centrale di controllo nella testolina di Riley, undicenne vitale, amata da due genitori premurosi e legata ad un’amica con cui condivide le sue passioni, l’hockey prima di tutto. Un trasloco forzato e avventuroso in una città nuova, ne trasformano l’esistenza e all’improvviso tutto diventa difficile nella relazione col mondo. Lentamente la tristezza e la rabbia prendono il sopravvento e le dolci sicurezze che avevano caratterizzato l’infanzia di Riley sembrano crollare. Per questo Joy tenta in tutti i modi di preservare l’equilibrio emotivo della bambina, sforzandosi di mantenere il controllo del centro nevralgico del cervello.
Pete Docter potrebbe a buon diritto essere annoverato con sole tre regie all’attivo tra i grandi autori della storia dell’animazione. Fine sceneggiatore, scrittore di personaggi prima che di storie, dotato della rara capacità di rappresentare con apparente facilità le diverse sfumature dell’animo umano, ha sposato pienamente la linea Pixar, artefice del passaggio dall’infanzia all’età adulta del cinema d’animazione. Che non significa guardare a un target maturo, ma realizzare film che sappiano coniugare intelligentemente intrattenimento ed emozione guardando tanto al pubblico infantile, quanto ai genitori, che i figli devono pur sempre portarli in sala. Il cinema della Pixar, oggi Disney-Pixar, senza rinunciare alle linee guida della casa madre, in perfetta sintesi con la tradizione, ha saputo leggere i tempi, le mutazioni sociali e culturali come le trasformazioni tecnologiche, sfornando racconti animati impensabili fino a qualche anno fa, in un processo di sperimentazione graduale che sta imponendo un modello difficilmente eguagliabile (nonostante i sorprendenti prodotti Dreamworks).
Con Inside Out, Docter porta i meccanismi dell’avventura in uno spazio invisibile e fino ad ora mai rappresentato. Il cervello diventa universo vasto e misterioso: non l’infinitamente piccolo dei corpuscoli cellulari del Viaggio allucinante di Richard Fleischer, ma un paesaggio plastico di strutture che si moltiplicano, si calcificano per poi sgretolarsi, affondano per riemergere diverse o per non riemergere affatto, destinate all’oblio nei recessi più lontani della memoria. Inside Out visualizza miracolosamente il funzionamento del cervello attraverso due piste narrative sinergiche: il problematico trasloco della famiglia di Riley e le difficoltà di ripartire da zero (casa nuova, lavoro nuovo e precario, scuola e compagni nuovi); lo stato depressivo di Riley, una vera tempesta emotiva che coinvolge soprattutto Joy e Sadness, spiriti inconciliabili almeno all’inizio e che si ritrovano a fare squadra per ricreare l’equilibrio perduto negli anfratti del confuso cervellino della bimba alle soglie dell’adolescenza.
Docter e il team creativo disegnano un mondo spettacolare e suggestivo, simbolizzando con strutture mai banali le autostrade neuronali che collegano le diverse aree, i meccanismi mnemonici, gli archivi dei ricordi, le isole di piacere come i luoghi dei turbamenti, l’inconscio e la genesi dei sogni (geniale il set televisivo), i simulacri dell’immaginazione come l’amico invisibile Bing Bong, un po’ elefante un po’ procione, morbido rassicurante caramelloso, rosa come lo zucchero filato, personaggio indimenticabile e che sorprende l’infanzia sepolta in ogni adulto. Perché Inside Out è un gioco di prestigio che racconta ai bambini cosa siano le emozioni con il linguaggio dei libretti d’avventura, ma così raffinato da farsi romanzo di formazione e vincere l’indifferenza degli adulti. La fragilità dell’esistenza, che già nello splendido epilogo di UP si dichiarava potenziale drammaturgico anche nel cinema d’animazione (ma ricordiamo come la morte faceva capolino già in Bambi), in Inside Out sorprende in un’età ancora tenera, preludio alle perturbazioni adolescenziali, quando le isole felici devono far posto alle passioni incerte, e sulla consolle del centro di controllo, si avventeranno sgomitando non solo le cinque emozioni base, ma una miriade di altri spiritelli irrazionali.
Alessandro Leone
INSIDE OUT e la crisi del sogno americano
«Il corpo è sempre in anticipo sulla mente», scriveva Jean Piaget quasi un secolo fa in uno dei suoi libri più riusciti sul giudizio morale del bambino. Naturalmente, per corpo, il celebre studioso svizzero non intendeva semplicemente il soma nella sua gretta esteriorità, ma tutti quei processi inconsci di mappatura corporea, di schemi mentali e catalogazioni che sottendono il funzionamento del nostro organismo e del nostro pensiero. In questo meccanismo di assimilazione, le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Di fronte a un’esperienza o a un ricordo significativo, infatti, le aree cerebrali preposte alle emozioni inviano segnali in due direzioni: verso il corpo e verso ulteriori aree dell’encefalo. I primi segnali seguono a loro volta due strade: quella del flusso sanguigno, mediante molecole di sostanze chimiche che agiscono sui recettori delle cellule dei tessuti; e quella neuronale, attraverso segnali elettrochimici che agiscono su altri neuroni, su fibre muscolari e sugli organi, che a loro volta possono liberare altre sostanze chimiche nel sangue. Allo stesso tempo, alcuni neuroni situati nell’ipotalamo, nel prosencefalo basale e nel tronco encefalico liberano varie sostanze nelle regioni cerebrali sovrastanti condizionando il modo di funzionare di molti circuiti neurali. Come rileva il celebre psichiatra portoghese Antonio Damasio, la mente è «accuratamente modellata dal corpo e destinata a servirlo. Se non c’è corpo non c’è mente». La mente, perciò, non fa altro che registrare i cambiamenti che l’esterno, o la riemersione dei dati esperienziali, determinano sul soma, aggiornandone continuamente i cambiamenti secondo processi di cui il più delle volte non avvertiamo neppure l’esistenza, e che trovano nelle emozioni i veicoli principali. Più l’emozione marchia il dato esperienziale, più il mutamento somatico, e quindi mnemonico, acquisisce particolare significato, facilitando tanto il recupero delle memorie immagazzinate quanto la valutazione di costi e benefici ai fini decisionali. Tale processo di «coloritura emotiva» è definito da Damasio «marcatore somatico». Simili aggiornamenti degli stati dell’organismo, tuttavia, non sono sufficienti a determinare una coscienza, un sé consapevole; a comprendere ciò che sta avvenendo nel nostro corpo e nel nostro cervello. Perché questo avvenga, occorre un ulteriore, fondamentale passaggio: la conoscenza del cambiamento; occorre cioè una mappa di «secondo ordine» che descriva la dinamica della modificazione stessa, attraverso immagini mentali che esprimano la «storia dell’organismo colto nell’atto di rappresentare i mutamenti del proprio stato mentre è occupato a rappresentare qualcos’altro»: occorre, in buona sostanza, la presenza di una narrazione, di un quadro che descriva la relazione tra l’oggetto e l’organismo; occorre un fattore oggettivante, che trasformi le configurazioni neurali in rappresentazioni.
Con Inside Out la Pixar compie una duplice straordinaria operazione, non limitandosi semplicemente a descrivere, con il suo immaginifico stile e con criterio sorprendentemente scientifico, i processi inconsci che sottostanno al funzionamento dell’organismo e della mente, ma costruisce una vera e propria storia, all’interno della quale si muovono personaggi provvisti di caratteri propri, in una sorta di teatro nel teatro, di sé dentro al sé, che concilia originalità narrativa e finalità edificanti tipiche del mondo Disney. Le emozioni primarie Rabbia, Paura, Disgusto, Tristezza e Gioia diventano pertanto i protagonisti di un processo senza protagonisti, portando a livello di coscienza narrativa ciò che di cosciente non ha nulla. La cosa ancor più sorprendente tuttavia, è che le dinamiche relazionali che muovono tali personaggi danno l’impressione di non descrivere soltanto la «meccanica dell’emozione» che costituisce la base del sé individuale, ma sembrano quasi fare da specchio a una coscienza più ampia, potremmo dire culturale, occidentale, la stessa che ha animato, fin dalle origini, lo spirito del capitalismo e ha gettato le fondamenta del mito americano. È scritto nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità». In Inside Out questo principio edonistico del diritto inalienabile alla felicità emerge con straordinaria forza e spirito critico. Basti pensare al ruolo di protagonista che gli sceneggiatori della Pixar hanno voluto attribuire alla Gioia e al “dolce dispotismo” che essa esercita sulle altre emozioni, in particolar modo sulla tristezza, la quale, per quasi l’intera durata del film, sembra essere la responsabile di tutti gli sconvolgimenti fisici e psicologici cui è sottoposta la giovane Riley in quella problematica evoluzione rappresentata dal passaggio dall’età fanciullesca a quella adolescenziale. Si ha quasi l’impressione di assistere alla storia della società americana, a come la rincorsa spasmodica del piacere, l’imporsi dell’individualismo più sfrenato e autoreferenziale, l’affermarsi del protagonismo iconografico da copertina patinata abbia finito per logorare la società americana, o quantomeno, per metterla nelle condizioni di porsi significativi interrogativi sui propri valori politici, morali ed esistenziali.
Inside Out è uno splendido scenario aperto sull’inconscio individuale e collettivo, capace non solo di intrattenere con vivacità e intelligenza, ma di insegnarci, con la leggerezza tipica del film commerciale d’animazione, che, in fondo, la felicità non è la cosa più importante e non porta necessariamente alla salute.
Manuel Farina
Inside Out
Regia e sceneggiatura: Pete Docter. Montaggio: Kevin Nolting. Musiche: Michael Giacchino. Origine: Usa, 2015. Durata: 94′.