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SPECIALE Il mio giardino persiano

In concorso alla Berlinale 2024, Il mio giardino persiano di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha (già in competizione a Berlino nel 2021 con Ballad of a White Cow), è un film commovente, ma anche coraggioso. I due cineasti, sposati nella vita, lo scorso anno non poterono presenziare al festival, in quanto il governo ritirò loro il passaporto, impedendone di fatto la trasferta. Rispetto al film precedente, un dramma fatto di dilemmi morali sulla giustizia, Il mio giardino persiano adotta toni diversi: è una commedia sentimentale, genere rarissimo nel panorama del cinema iraniano che circola all’estero, per quanto ci siano inevitabilmente dei lati drammatici.
Protagonista è la settantenne Mahin, vedova da trent’anni, che vive sola in una casa con giardino che è la sua unica gioia, mentre i figli sono all’estero da tempo. Si sveglia tardi la mattina perché non dorme la notte e sempre più raramente vede le amiche per un pranzo o un tè. Nonostante i problemi alle ginocchia, cerca di restare attiva, va a passeggiare al parco, dove vede una ragazza rimproverata dalla polizia morale perché non indossa bene il velo, la difende, riesce a non farla portare via e la incita a ribellarsi. Mahin ripete di avere imparato cose con l’avanzare degli anni. Pranzando in un ristorante, ascolta i discorsi dei tavoli vicini e si accorge di un tassista coetaneo, Faramarz, anch’egli solo. Lo cerca, lo aspetta, si fa accompagnare a casa e poi lo invita a prendere qualcosa. È un incontro insperato, ma forse lungamente atteso dai due, che all’improvviso hanno la sensazione che non tutto sia già finito.
I due registi sono molto severi con i quarant’anni di Repubblica islamica, criticando il regime, rimpiangendo il tempo in cui lo hijab non era obbligatorio o si potevano bere alcolici liberamente. Una commedia agrodolce sull’amore tra anziani, nella quale fa sempre capolino la realtà. Un film insolito, con alcune gag molto riuscite, ben scritto, curato ed efficace. Da applausi l’interprete Lily Farhadpour, incredibilmente dimenticata dalla giuria berlinese un anno fa.

Nicola Falcinella

Inaspettatamente la vita

Ci vuole coraggio e convinzione per trasformare una routine noiosa in una giornata particolare. Mahin ci riesce nonostante alzarsi a mezzogiorno, fare la spesa, consumare pasti in solitudine, occuparsi del suo giardino di piante aromatiche, sentire la figlia lontana in videochiamate senza colore, siano diventati automatismi rassicuranti in un contesto sociale e politico discriminatorio e regolato da leggi ferree. A settant’anni, senza un marito, con amiche anziane e acciaccate che vede una volta l’anno, la casa sembra il terminale di una vita senza sussulti, in cui sono andati spegnendosi desideri e aspirazioni.
Così, quando Mahin decide di averne abbastanza della sua “autonomia” e si mette a cercare un uomo, sembra sul punto di fare una rivoluzione. Una rivoluzione gentile, certo, priva dell’energia delle giovani che, mentre il film veniva girato, scaldavano le strade di Teheran gridando “Donne, vita e libertà”, come reazione alla morte di Mahsa Jina Amini, di cui nel film percepiamo la eco nella sequenza in cui Mahin difende una ragazza dalla famigerata polizia morale.
C’è molto della storia dell’Iran odierno, dei 45 anni di regime, del senso di spaesamento degli anziani, molti dei quali la rivoluzione contro lo stato laico l’avevano appoggiata, senza forse prevedere quelle che sarebbero state le conseguenze. E allora, ritornando sulla sequenza in cui Mahin sfida la polizia morale, accostando poi il film a Il seme del fico sacro, adesso in sala (coincidenza?), sembra che giovani e anziani difendano delle istanze che la generazione di mezzo non riconosce come lecite.
La storia di una donna che invita un uomo a casa con sfrontatezza, senza troppo tergiversare, dichiarando di voler vivere e non sopravvivere, dunque di difendere la propria libertà per poter godere della gioia di un rapporto, forse di un amore, deve essere arrivata come una bomba incendiaria a Teheran, soprattutto dopo la vicenda di Mahsa Amini. E bisogna ringraziare la lungimiranza di Moghaddam e Sanaeeha se il film è arrivato a Berlino e adesso possiamo apprezzarne il valore in sala, dopo la confisca degli hard disk con il girato (per fortuna precedentemente salvato) insieme ai passaporti degli autori. Moghaddam e Sanaeeha come Jafar Panahi e la cineasta attivista Mahnaz Mohammadi, perseguitati, reclusi, imbavagliati, e mettiamoci pure Mohammad Rasoulof, già condannato, ma sfuggito miracolosamente al regime per presentare a Cannes Il seme del fico sacro.
Lily Farhadpour (che interpreta Mahin) e Esmail Mehrabi (Faramarz), magnifici, magnetici, non sono semplicemente attori, ma anche loro militanti sul fronte della protesta per il solo fatto di accettare ruoli scomodi. Complici dei due registi/sceneggiatori si mettono in scena con un’intensità tale da rendere drammatico lo scarto che esiste tra affermazione/soddisfazione del desiderio e la punizione come possibilità concreta. Per questo nel loro lento avvicinarsi, nella cortese apertura degli spazi della propria abitazione, nel dono di un pasto o del vino (vietatissimo) che scioglie sciocchi vincoli etici, e poi nella cura con cui la donna cuce i rispettivi passati a un presente radioso e ringiovanente, Mahin si afferma come paladina del diritto alla vita delle donne iraniane.
Moghaddam e Sanaeeha dosano sapientemente i movimenti della macchina da presa (mdp) evitando interferenze, semmai caricando, come fossimo nel cuore di un thriller, il momento di massima felicità dei due quasi amanti, dopo una magnifica, pudica, doccia insieme senza togliersi gli abiti, lasciando però presagire che qualcosa forse romperà l’idillio. Povero Faramarz, si era capito che forse non avrebbe retto, ma quel che davvero conto è come ci si arriva a quel momento: la mdp, nel centro del salotto, gira lentamente sul proprio asse descrivendo un cerchio quasi completo, come se avesse perso la connessione satellitare con le frequenze della gioia. L’amore nasce, si concretizza, muore nel giro di un battito di ciglia, come un sogno, come un incubo. E Mahin ritorna sola nel suo giardino di piante aromatiche, definitivamente invecchiata.

Alessandro Leone

Il mio giardino persiano

Regia e sceneggiatura: Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha. Fotografia: Mohamad Hadadi. Montaggio: Ata Mehrad, Behtash Sanaeeha. Interpreti: Lili Farhadpour, Esmaeel Mehrabi, Mansoore Ilkhani, Soraya Orang. Origine: Iran/Francia/Svezia, 2024. Durata: 97’.

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